Sentirsi uomo e donna insieme: chi è il “gender fluid”

Svegliarsi oggi sentendosi un’anima femminile; alzarsi domani e avvertire che “l’animus” a prevalere è la componente maschile. Sembra impossibile, invece accade ai “gender fluid”. E in occasione della Giornata mondiale contro l’Omofobia (17 maggio), abbiamo rivolto un pensiero anche a loro. Persone che nel corso della vita si identificano con entrambi i generi: percependosi, alternativamente, uomo e donna. Passaggio che in taluni avviene in modo rapidissimo e in altri in un tempo più dilazionato. “Gender fluid” è diverso dall’essere pansessuale, attratto cioè da qualunque genere, da un punto di vista sessuale; è diverso dall’essere no-gender, in cui non vi è piena identificazione in un preciso genere sessuale; è diverso ancora dall’essere transgender, che spinge in alcuni casi al bisogno di affrontare il percorso di transizione e cambiamento sessuale anche a livello fisico. Il comune denominatore di questi gruppi di persone è sentire come non corrispondente a sé l’identità di genere alla nascita. Per capire i comportamenti e soprattutto le sofferenze di chi vive questa condizione, abbiamo intervistato la dottoressa Benedetta Comazzi, psicologa.

Cosa si intende e chi è “gender fluid”?
«Spesso si affronta la tematica “gender fluid” come una questione puramente sessuale: non è così, non si limita solo a questo. Alla base c’è un concetto ben più profondo: l’identità di genere, ovvero il senso di appartenenza a un orientamento culturale-comportamentale maschile o femminile, oltre all’appartenenza al sesso biologico, che la persona vive e sperimenta. In maniera repentina o più diluita nel tempo la persona “gender fluid” avverte, nell’intimo, ma anche a livello fisico in temine di sensazioni, il cambiamento fluttuante tra maschile e femminile, assumendo quindi alcuni giorni ruoli e atteggiamenti di impronta più maschile o viceversa in altri, comportamenti femminili in modo alternato. Dunque senza calarsi in una precisa identità sessuale. Un sentire che è quasi costituzionale, a tal punto che queste persone definiscono sé stesse con pronomi maschili o femminili secondo il genere che in quel momento sentono, mentre altri preferiscono non avere un articolo o pronomi di riferimento. Questo spiega, ad esempio, anche il diffondersi di scritture che ricorrono all’uso di asterischi, come forma di rispetto e di riconoscimento nei confronti di persone “gender fluid”. Costoro ritengono che essere maschio o femmina non è un dato oggettivo, bensì un prodotto della cultura: chi vive questa condizione stima che l’identità sessuale non venga stabilita dalla natura, dunque da un dato biologico, ma dalla percezione individuale. Ovvero, in senso generale, persone che vivono un problema di identità sessuale possono nascere biologicamente uomo o donna, percependosi in realtà nel corpo e nell’anima del sesso opposto. Come conseguenza di questo loro pensiero, ciascuno è dunque libero di assegnarsi il genere che percepisce, dunque orientare la propria sessualità secondo le proprie pulsioni. Poiché le pulsioni e i desideri sono mutevoli, al pari può essere mutevole anche il genere».

È una condizione vissuta da alcune fasce di popolazione in particolare?
«Sì, il fenomeno riguarda maggiormente la fascia più giovane della popolazione, in modo particolare gli adolescenti, periodo della vita in cui si esplora la propria identità, compresa quella sessuale. In questo contesto si inquadra anche la “gender fluidity”, una modalità per indagare su come e chi si è davvero. Il fenomeno non mostra una prevalenza fra maschi e femminine, ma accade indistintamente in entrambi i sessi. Alcuni sondaggi che mettono a confronto la “gender fluidity” in Europa e Stati Uniti, attestano che il 43% dei giovani fra 18 e 24 anni, indipendentemente dal territorio preso in esame, non si definisce né completamente etero, né completamente omosessuale, né completamente bisex, sposando pienamente la filosofia del “gender fluid”. Ma la ricerca evidenzia anche un altro aspetto molto importante: gli alti livelli di stress psicologico, ovvero la sofferenza e il disagio, vissuto da queste persone, che induce in molti casi al suicidio o al tentato suicidio».

Affrontiamo l’aspetto psichico ed emotivo: come si sente una persona che sperimenta la “gender fluidity”?
«Possiamo dire che è una situazione psichica ed emotiva “tormentata”: infatti, se una persona “gender fluid” sperimenta e accetta il proprio percorso di ricerca di identità con serenità, spesso si trova a confrontarsi e scontrarsi con un ambiente ostile che lo sottopone a una serie di stress. Dall’altro ci sono persone già “vittime” dell’ambiente e del contesto sociale e familiare in cui sono inserite, vivendo la propria ricerca di identità con grande difficoltà. Dunque non sono rare le occasioni in cui queste minoranze vivono forme di violenza e discriminazione importanti che le espongono a uno stress particolare, definito “minority stress”, ovvero uno stress sociale che si sviluppa a seguito della continua stigmatizzazione che proviene da ogni settore della vita e si somma allo stress legato al quotidiano che tutti sperimentiamo. È una condizione che richiede ai “gender fluid” uno sforzo di adattamento sociale maggiore rispetto al resto della popolazione non stigmatizzata, tanto più che si tratta uno stress cronico, in quanto legato a sovrastrutture sociali indipendenti dall’individuo e che, alla lunga, mina la stabilità psicologica della persona costantemente sottoposta a eventi e condizioni stressanti, come violenze sessuali, verbali, fisiche, discriminazioni o comunque che vive nel timore che si possano realizzare. A livello emotivo e psichico si attiva uno stato di perenne vigilanza che porta la persona, conseguenza frequente ma altrettanto dolorosa, ad occultare il proprio orientamento sessuale/identità di genere. Sofferenze che si traducono spesso in forme di ansia, depressione, somatizzazione, anche a livello fisico, molto importanti».

Quale tipo di aiuto si può offrire alle persone che affrontano questo percorso?
«Un percorso psicoterapico è di grande supporto: spesso occorre però lavorare non solo sulla persona, ma a livello di “sistema familiare”, portando a galla o aiutando l’intero contesto ambientale a comprendere lo stigma interiorizzato. Oppure è possibile valutare l’opportunità di invitare la persona a fare “coming out” o a trovare strategie di coping che aiutino ad affrontare e a reagire agli eventi. Sul territorio esistono molte associazioni che diffondono informazioni e sensibilizzano al problema, nell’intento di prevenire le discriminazioni sul “gender fluid” o che offrono la possibilità, a chi lo richiede, di un supporto psicologico con gruppi di auto-aiuto per i loro genitori, favorendo così anche a livello di sistema familiare l’accettazione e il benessere della persona. Azioni che contribuiscono anche a ridurre il rischio di suicidi che, secondo uno studio del 2012 sono elevatissimi, pari al 57%, nei giovani transgender, rifiutati in famiglia, a differenza del 4% in giovani socialmente accolti».

Quali difficoltà deve affrontare in termini di reinserimento sociale la persona “gender fluid”?
«Anche nella persona che riesce a “fare pace” con il proprio stato, i problemi con l’ambiente circostante continuano a essere innumerevoli, soprattutto quando il contesto non risponde al proprio sentire, “vittimizzando” con insulti, commenti pesanti, fino a ripercussioni più importanti, quali ad esempio anche la perdita di lavoro, con indiscusse implicazioni anche dal punto di vista psicologico e lo sviluppo di somatizzazione, come un forte stato d’ansia o depressivo, che portano la persona a credersi sostanzialmente sbagliata, limitando anche le possibilità di affrontare con successo un percorso terapeutico mirato sulle necessità della persona».

di Francesca Morelli

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