Il valore della differenza

Una realtà “in rosa” che dedica particolare attenzione anche alla leadership femminile. È emerso dal report “Il Valore di Merck in Italia”, presentato di recente a Roma, presso il Palazzo dell’Informazione, realizzato da The European House Ambrosetti. Negli ultimi quattro anni questa azienda, che opera nel settore farmaceutico, ha incrementato la percentuale di donne in posizione manageriale del 10,5%, arrivando al 43,3% (la media italiana è del 29%). L’azienda ha anche scelto figure femminili nelle posizioni apicali dei suoi tre stabilimenti Healthcare e nella sede Life Science and Electronics di Milano. Anche la percentuale femminile nella ricerca è sopra le medie del settore: 58% contro 53%. Si tratta indubbiamente di un importante segno distintivo, in un Paese che vede ancora le donne ai margini del mercato del lavoro (55%) in confronto alla media dei Paesi UE (71,8%). Per le nuove assunzioni, negli ultimi quattro anni, l’azienda ha tenuto in considerazione, oltre alle donne (59%), anche i giovani under 30 (34%).

Per capire come mai le donne hanno difficoltà ad occupare ruoli chiave nel mercato del lavoro, abbiamo intervistato la professoressa Barbara Martini, docente di Politica Economica e delegata alle Pari Opportunità e Inclusione, presso l’Università Tor Vergata di Roma,

Qual è il valore dell’impiego professionale delle donne e perché vengono spesso discriminate, soprattutto nei ruoli apicali?
«Innanzitutto ci terrei a precisare che le donne nei ruoli apicali rappresentano un “modello” per dimostrare alle altre donne che ce l’hanno fatta a realizzarsi professionalmente. Nei ruoli apicali ovviamente i salari sono superiori e questo vuol dire avere più indipendenza economica, più potere negoziale in famiglia, ma anche più libertà in alcune situazioni. In questi giorni, in occasione di un evento organizzato dalla nostra università in ricordo di Giulia Cecchettin, è emerso che il 40% delle donne italiane, secondo i dati di Banca Italia, non hanno il conto corrente. E questo vuol dire non poter nemmeno percepire il reddito di cittadinanza o la pensione di reversibilità. In questi casi, di fronte a un marito violento, non c’è nessuna chance di poter andare via. Il fatto che alcune donne riescano a raggiungere livelli dirigenziali è un modello per altre donne e una spinta a reagire: “se lei ce l’ha fatta, posso farcela anch’io”».

Quali vantaggi potrebbe offrire all’azienda una donna nei ruoli dirigenziali?
«La differenza, in questo caso “di genere” produce un valore aggiunto. Le donne dirigenti portano sicuramente una prospettiva diversa: hanno una gestione della leadership che non è quella maschile. Usano un linguaggio, un meccanismo di gestione del tempo che non è quello maschile. Personalmente sono a favore della diversità. Non amo le donne manager che mantengono i paradigmi maschili. Apprezzo invece le donne manager che intendono rafforzare le loro capacità».

In quali settori le donne potrebbero portare un valore aggiunto?
«Come università stiamo facendo una serie di studi sulla “segregazione di genere” in ambito professionale, in Italia, nel senso che le donne sono impiegate in alcuni settori piuttosto che in altri. In altri Paesi, come quelli Scandinavi, non c’è alcuna differenza nell’impiego delle donne, a parità di qualifiche professionali, rispetto agli uomini. È anche normale che gli uomini chiedano il part time o la paternità per curare i figli, mentre le donne lavorano. Da noi purtroppo questo non avviene. Forse dovremmo anche accettare che questa è una scelta delle donne, di fare la mamma o di lavorare in certi settori perché si sentono più realizzate e si trovano meglio. Vorrei dire che dobbiamo accettare la diversità perché è un “valore”. Nel caso dell’azienda in questione, che si occupa di ricerca farmacologica, è quasi naturale che vengano impiegate tante donne, laureate soprattutto in Biologia, dove la presenza femminile è nettamente superiore a quella maschile. È una questione di attitudine mentale a questi studi piuttosto che ad altri nel settore dell’ingegneria o dell’informatica. Ed è una realtà che va accettata. Parallelamente occorre lavorare per far sì che le donne possano scegliere di misurarsi sempre di più nelle discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), abbattendo tanti stereotipi sociali e culturali che spesso ne condizionano la scelta. In sintesi ben venga seguire le scelte e le inclinazioni degli individui a patto che esse non siano il frutto di condizionamenti esterni».

A suo parere cosa dovrebbe fare un’azienda per incentivare l’impiego e la realizzazione professionale di una donna?
«Direi una politica di “Work life balance”, per poter consentire anche alle donne di conciliare gli impegni professionali con quelli familiari. Non è possibile ad esempio fare importanti riunioni alla sera, magari alle 20, quando per una donna è difficile partecipare, perché deve andare a casa a gestire la famiglia, i figli, altrimenti rischia di incrinare l’equilibrio della vita privata. Anch’io l’ho provato sulla mia pelle e ho fatto enormi sacrifici finché ho avuto la prima figlia. Ma non potevo aspettare le 19.30 di sera per parlare con il professore, perché rischiavo di non vedere più mia figlia. Accettiamo il fatto che le donne hanno bisogno dei loro ritmi e hanno mansioni all’interno della famiglia che non possono essere demandate agli uomini. Un esempio lampante: allattare i figli. Questo vuol dire creare un contesto sociale che accetti la loro diversità e che consenta loro di svolgerla senza penalizzarle. È pertanto necessario un cambio di passo in cui in azienda viene dato maggior valore al conseguimento dei risultati piuttosto che alla presenza prolungata sul posto di lavoro».

Oltre alla “discriminazione professionale” si evidenzia anche la scarsa partecipazione delle donne ai trial clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci…
«È un altro settore in cui la donna non viene coinvolta adeguatamente e questo a scapito dell’utilizzo dei farmaci in modo appropriato. Le reazioni della donna a un farmaco sono indubbiamente diverse rispetto all’uomo. Gli sbalzi ormonali possono inficiare la buona riuscita di una sperimentazione. Quindi si cerca di arruolare prevalentemente uomini giovani in buona salute, per ottimizzare i tempi di sperimentazione. Ma le donne non solo sono scarse nei trial clinici, vengono spesso sottovalutate anche nella manifestazione di una patologia. Basti pensare all’infarto che spesso nelle donne non viene riconosciuto perché si manifesta con caratteristiche diverse rispetto all’uomo, dove compare un dolore tipico al petto e al braccio sinistro. Nelle donne si manifesta in modo diverso e arrivano al Pronto Soccorso con sintomi differenti, magari mal di stomaco o dolori alla schiena, che a volte vengono addirittura trascurati dai medici, col rischio di sottostimare il problema che potrebbe addirittura compromettere la vita della donna. Anche in questo campo, c’è bisogno di un cambio totale di paradigma che deve tener conto della diversità di genere».

di Paola Trombetta

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