C’è incredulità, rabbia, dolore per la morte di Giulia Cecchettin, avvenuta per mano dell’ex compagno Filippo Turetta, coetaneo che, dopo la fuga a bordo della sua auto, è stato riconosciuto in autostrada dalla polizia tedesca e arrestato in Germania (presto per lui scatterà l’estradizione). Dal dossier annuale del Viminale emerge che nel nostro Paese, quest’anno, fino al 17 novembre 2023, sono state uccise 105 donne (in 41 casi l’assassino era il marito, il partner, il convivente). Giulia è la 105a vittima. Aveva 22 anni, gioiosa di una vita nuova. Avrebbe dovuto laurearsi il 16 novembre in Ingegneria biomedica all’università di Padova e invece, il giorno dopo, è stato ritrovato il suo cadavere in un dirupo. Filippo Turetta, l’ex fidanzato, “il bravo ragazzo” che l’ha sempre amata e le preparava i biscotti (sono le parole del suo legale), l’ha uccisa con numerose coltellate alla testa e al collo; poi l’ha scaraventata giù da un dirupo per cinquanta metri, fino a quando il corpo senza vita si è fermato in un canalone vicino al lago di Barcis. Giulia aveva lottato per difendersi, lo si capisce dai tagli e dai lividi sulle braccia, sul collo…
Purtroppo sapevamo come sarebbe andata a finire, era una storia già scritta, perché è successo nello stesso identico modo innumerevoli altre volte. Donne uccise per mano di un uomo, un compagno, un fidanzato, un marito, un ex respinto. Come un’altra vittima recente, anche lei di nome Giulia (Tramontano), incinta al settimo mese, massacrata a Senago dal compagno Alessandro Impagniatello, lo scorso 27 maggio, con crudeltà e premeditazione. In tutti i casi si tratta di uomini che considerano la donna un possesso, un vanto, una conquista. In questi anni le donne dimostrano di saper costruire un autonomo progetto di vita, con o senza partner. Anche nelle difficoltà e nel dolore, talora nell’indigenza e nella solitudine, sono in grado di mettere insieme i cocci, di trovare la rotta, di costruire un percorso, una prospettiva. Gli uomini, al contrario, non ne sono più capaci: non accettano l’abbandono, la perdita di potere.
Come contrastare questo fenomeno? Come prevenirlo? Servono le leggi, le migliori possibili, servono forze dell’ordine con codici di intervento efficaci, servono case di accoglienza e posti di lavoro affinché uscire da un rapporto tossico non corrisponda a una caduta nel vuoto: se una donna vuole lasciare un compagno fisicamente o psicologicamente violento e non è economicamente indipendente, come fa? Ma ancora prima, serve un cambiamento nella testa degli uomini, anche quelli più giovani. I dati lo confermano, contro ogni previsione: resta radicata l’idea del predominio maschile, che scivola nelle canzoni, nelle frasi fatte, nei piccoli comportamenti quotidiani. E la “cultura” della violenza, di cui è permeata la nostra società, si è ampiamente estesa, anche tra i più giovani: il branco e il bullismo ne sono testimonianza.
Non basta insegnare alle donne a difendersi e a riconoscere i segnali d’allarme che precedono lo scatenarsi della violenza all’interno della relazione: è l’uomo che deve imparare a rispettarle. Quando diciamo alle donne di denunciare dobbiamo garantire loro un processo giusto e libero da stereotipi e pregiudizi. Basta giustificare i carnefici, colpevolizzando le vittime invece che sostenerle, non prendendo una chiara posizione contro gli aggressori. Basta parlare di raptus per provare a spiegare abusi, aggressioni e gesti efferati. Lo scorso agosto, a Firenze, due ragazzi 19enni all’epoca dei fatti, sono stati assolti dall’accusa di violenza sessuale ai danni di una 18enne perché “hanno avuto un’errata percezione del consenso della ragazza che li ha denunciati”. Le sentenze non si dovrebbero commentare, ma questa bizzarra sentenza conferma, purtroppo, l’insufficiente attenzione relativa a tutti i gradi del processo, sulla violenza sessuale. Ancora più clamore ha suscitato la decisione di scarcerare Dimitri Fricano che nel 2017 colpì la fidanzata con 57 coltellate. Già condannato a 30 anni in via definitiva, i giudici del Tribunale di sorveglianza di Torino adesso gli hanno concesso gli arresti domiciliari “perché obeso e fumatore”.
Il brutale omicidio di Giulia fa riesplodere non solo il dibattito pubblico, ma anche quello politico. Le scontate reazioni indignate della politica: un fiume di parole, che a volte speculano su questi delicati argomenti. Leggi ne sono state fatte, altre se ne potrebbero fare ancora. Il disegno di legge 923, presentato dal Ministro per la Famiglia Roccella, dal Ministro dell’Interno Piantedosi e dal ministro della Giustizia Nordio, approvato alla Camera dei Deputati il 26 ottobre 2023, è stato confermato all’unanimità al Senato il 22 novembre. Ora vede l’introduzione di una corsia veloce e preferenziale per le denunce e le indagini nei casi di violenza, come avviene nei pronto soccorsi per i pazienti a cui serve un intervento immediato per avviare un procedimento penale per alcuni reati: stalking, maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale. Confermato l’allungamento dei tempi per sporgere denuncia: la vittima ha 12 mesi per farlo e non più 6 come in precedenza. Modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Il giudice, per garantirne il rispetto, può predisporre anche il ricorso al braccialetto elettronico. Inasprite, e di molto, risultano anche le pene. È già pronta una campagna di sensibilizzazione nelle scuole, sulla parità tra i sessi, la prevenzione della “violenza di genere”, coinvolgendo i ministri delle Pari Opportunità e della Famiglia, della Cultura e dell’Istruzione. A proposito: che fine hanno fatto in questi anni le linee guida del piano per l’educazione al rispetto presentato nel 2017 dall’allora ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli?
Servirebbe un’azione che veda l’impegno concreto di tutti. “È il momento di pensare a un progetto, un accordo su temi che riguardano la prevenzione dei femminicidi, a partire dalla scuola”, ha affermato Paola Cortellesi rivolgendosi alla premier Giorgia Meloni e alla segretaria del Pd, Elly Schlein. “Sono sicura che esiste un punto di incontro. Mi piacerebbe tanto che la loro appartenenza al genere femminile le facesse andare oltre lo scontro politico”.
“C’è ancora domani”: un esempio di coraggio
Brava Paola Cortellesi! C’è ancora domani, il suo recente film, esordio alla regia, un inaspettato successo di botteghino (ha raggiunto quasi 13 milioni di incassi in tre settimane), che porta nelle sale proprio il tema della violenza domestica, del patriarcato, dei diritti civili. La prima scena del film mostra Delia (la stessa Cortellesi) a letto, con il marito Ivano (Valerio Mastandrea) di prima mattina: lei dice buongiorno e la risposta che ottiene è un sonoro ceffone in pieno volto. Nella Roma ancora occupata dagli americani, Delia fa mille lavoretti: rammenda le calze, ripara gli ombrelli, per poi tornarsene a casa e continuare il suo lavoro di serva, succube di un marito padrone, violento. Ma il film racconta anche un percorso di consapevolezza di Delia, paziente, testarda e coraggiosa, come lo è stato quello di tante donne – le nostre nonne o le nostre stesse madri – che hanno combattuto silenziosamente con intelligenza e forza, per conquistare il diritto di essere libere. È un film che parla anche del nostro presente: oggi l’amore tra un uomo e una donna viene spesso travisato in una dinamica di possesso. Purtroppo le cronache ce lo ricordano. La violenza maschile di sopraffazione fisica, culturale, economica, sembra irrisolvibile. Troppe sono ancora, le donne vittime di questa violenza. Il prezzo pagato per la loro emancipazione appare purtroppo ancora molto alto.
di Cristina Tirinzoni