Disparità di genere: condiziona anche la salute

Moderna a parole, ma poco “emancipata” di fatto. Sono ancora molte, troppe, le disparità di genere che condizionano la vita delle donne in particolare o di specifiche categorie di popolazione: retaggi culturali, pregiudizi legati a etnie o a orientamento sessuali, differenze retributive “segnano” un’importante disparità di genere a favore dell’uomo e a danno, non solo socio-economico, ma anche sulla salute psicofisica della popolazione femminile. Disparità che rappresentano, ancora oggi in una società presunta “all’avanguardia”, uno dei maggiori ostacoli al benessere di donne e ragazze: dimostrazione ulteriore ne è il fatto, ad esempio, che sono ancora pochi gli studi clinici condotti sulle donne, “discriminate” dunque sulla conoscenza di sintomi e risposte differenti, a fronte di una medesima patologia o di una identica cura. Aspetti su cui pesano anche determinanti sociali: condizioni ambientali, socioeconomiche, culturali, istruzione, reddito, rete familiare possono contribuire a influenzare l’accesso ai servizi sanitari di prevenzione, diagnosi e cura, come lo stato di salute, che si evidenzia soprattutto in alcuni ambiti quali la salute mentale, sessuale e riproduttiva, l’oncologia, la salute cardiometabolica.

«Il contesto in cui le persone nascono, crescono, vivono, lavorano e invecchiano – afferma Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda – determina importanti disuguaglianze per la salute, ulteriormente aggravate in gruppi di popolazione con specifici bisogni assistenziali e maggiori difficoltà di accesso ai servizi come donne vittime di violenza, carcerati, migranti, transgender. È nostro compito alleviare queste disuguaglianze per alleggerire anche il carico morale e mentale che pesa su chi è svantaggiato, in larga misura donne, e a ridurre il gender gap in sanità e nella ricerca scientifica».

A condizionare la salute della donna, è anche la disuguaglianza professionale: a parità di valore il mondo femminile è economicamente meno valorizzato e economicamente gratificato. «L’ambito lavorativo è fra quelli in cui le diseguaglianze sono particolarmente evidenti, con un pesante riflesso sulla salute mentale della donna. Ansia, depressione, disturbi del sonno – aggiunge Claudio Mencacci, Presidente Sinpf (Società Italiana di NeuroPsico Farmacologia) – sono manifestazioni più frequenti e largamente diffuse nella popolazione femminile, ma che potrebbero attenuarsi se nel mondo del lavoro ci fosse maggiore equità nelle retribuzioni, migliore conciliazione dei tempi lavoro-famiglia che consentano alla donna di fare carriera e di pensare ad una maternità, e soprattutto una maggiore valorizzazione del lavoro femminile che spesso è doppio rispetto a quello maschile. Non si dimentichi il ruolo di care-giver, sostenuto dalla donna nel proprio nucleo familiare o di assistenza ai genitori anziani».

Non ultimo anche il contesto e il luogo residenziale costituiscono una discriminate: condizioni ambientali, socioeconomiche e culturali svantaggiate limitano la qualità della cura e della salute, costringendo (o facendo rinunciare alla persona) al turismo sanitario: lo attesta l’indagine “La mobilità per diagnosi e cura: il punto di vista del paziente” svolta da Elma Research, per identificare e quantificare la disparità di accesso alle cure oncologiche, in particolare per il tumore del seno e del polmone, in funzione della territorialità. I dati dell’indagine mostrano che il luogo di residenza definisce le scelte e i comportamenti legati alla salute: emerge ad esempio che il 40% dei pazienti è in cura in strutture fuori dal comune di residenza (con punte del 45% in caso di territori di bassa accessibilità ai servizi): migrazione dovuta per un terzo all’assenza di servizi e/o ospedali in grado di rispondere ai bisogni di cura e nel 57% per la volontà di rivolgersi a centri di eccellenza. Lo spostamento, anche se volontario, impatta in maniera importante sul paziente: a livello economico (32%), di trasporti (27%), emotivo (24%), di rinuncia ad impegni sociali (17%). Inoltre, altro dato importante, spesso i pazienti non sono informati dell’esistenza e della possibilità di accesso a trial clinici, quando non vi siano altre terapie attive o all’opposto, tale possibilità anche se nota, potrebbe essere rifiutata a causa della distanza e dunque della non facile fruibilità della cura.

«È evidente il disagio e la percezione di discriminazione di pazienti costretti a viaggiare per sentirsi curati al meglio. Tuttavia, l’eccellenza – conclude Filippo de Braud, Direttore Oncologia Medica ed Ematologia, Fondazione IRCSS Istituto Tumori di Milano – è frutto di organizzazione e di volumi di pazienti trattati. Ciò impone la necessità di scelte organizzative nazionali e regionali per garantire il miglior percorso diagnostico e terapeutico a tutti nel rispetto del diritto a curarsi per vivere e non vivere per curarsi».

di Francesca Morelli

“Onconauti”: un progetto per favorire il rientro al lavoro delle donne con tumore

Cresce il numero di donne con tumore al seno diagnosticato e trattato in età lavorativa e di queste, molte, grazie alla ricerca e alle nuove cure, sono “sopravviventi”, portandosi appresso un bagaglio importante di effetti collaterali, anche psico-emotivi, che possono condizionare il ritorno al lavoro. Per aiutare le donne a superare questa fase delicata della vita e a reintegrarsi appieno nel tessuto sociale e lavorativo, l’Associazione dei pazienti Onconauti, in collaborazione con le Istituzioni Sanitarie pubbliche, ha ideato un metodo di riabilitazione integrata oncologica che prevede interventi sullo stile di vita, efficace nel ridurre ansia, depressione, dolore, affaticamento, migliorando l’efficienza psico-fisica. Il progetto riproducibile, a basso costo, validato da più di dieci anni, ha già coinvolto oltre duemila pazienti. «Il nostro metodo – spiega Stefano Giordani, Direttore Scientifico Associazione Onconauti – consiste in trattamenti non farmacologici, ovvero un programma personalizzato di attività come lezioni di yoga, agopuntura o shiatsu, riflessologia e Qi Gong, e la correzione degli stili di vita con l’impostazione di una dieta salutare e la promozione dell’attività fisica regolare. Inoltre i pazienti ricevono un supporto psicologico, con attività quali l’arteterapia o la mindfulness, ad esempio, e in caso di necessità specifiche, sedute di fisioterapia. La combinazione di questi tre elementi – trattamenti integrati, stile di vita corretto, supporto psicologico – in un percorso di tre mesi favorisce il miglioramento della qualità di vita e dei sintomi nell’86% dei partecipanti, che possono così riprendere l’attività lavorativa. Inoltre, dati di letteratura, attestano che questi interventi nei tumori più frequenti sono anche in grado di ridurre il rischio di recidiva e aumentare la sopravvivenza. Fondamentali in questo percorso risultano la tecnologia per la Teleriabilitazione, la presenza sul territorio e la personalizzazione degli interventi». È fondamentale supportare il rientro al lavoro: il Piano Oncologico Nazionale e il Piano Nazionale di Prevenzione sottolineano l’importanza degli stili di vita salutari e del recupero del benessere nel follow-up oncologico, con gli ambienti di lavoro identificati come “setting” di prevenzione. «Serve un ampio consenso tra Istituzioni, Società scientifiche, Aziende e Associazioni del Terzo Settore – prosegue Giordani – che favorisca una comunicazione tra Oncologi, Medici di Medicina Generale e Medici Competenti e percorsi riabilitativi di “Return to Work”, dedicati al recupero funzionale delle pazienti lavoratrici. Non bastano le raccomandazioni e interventi sullo stile di vita: servono percorsi di reinserimento lavorativo adeguati».

Anche LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) è da sempre schierata dalla parte delle donne: «In particolare, ci impegniamo a sostenere le oltre 900 mila che hanno vissuto l’esperienza del cancro al seno con progetti di riabilitazione fisica, psicologica, sociale, occupazionale e rigenerativa. In alcune Associazioni Provinciali LILT – dichiara il Presidente, professor Francesco Schittulli – sono attivi dei laboratori CRE, veri e propri centri di Medicina Estetica e Rigenerativa, dedicati alle pazienti oncologiche che accompagnano le donne nel percorso di riconquista psico-fisica di sé, che passa anche dalla cura dei disagi estetici provocati dalle terapie. La LILT è inoltre tra i promotori del Manifesto per i “diritti del malato oncologico” (già presentato a Papa Francesco ed al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella), che ha obiettivo di promuovere la tutela medico-psicologica-legale del paziente oncologico e di sensibilizzare i datori di lavoro e la comunità, secondo il principio universale di uguaglianza e di salvaguardia del diritto fondamentale alla salute».
F. M.

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