Allergie alimentari: un esame del sangue predice il rischio di reazione ai cibi

In modo quasi del tutto indolore, con un semplice esame del sangue, oggi è possibile definire nei bambini allergici agli alimenti il rischio e la gravità delle reazioni a cui potrebbero andare incontro a contatto con determinati cibi. Questo esame, chiamato BAT test (Test di Attivazione dei Basofili), permette di simulare in laboratorio le reazioni allergiche senza esporre il paziente e il bimbo nello specifico a rischi: si effettua infatti “in vitro”, cioè in provetta, su un campione di sangue, come fosse un test di scatenamento “in vivo”. «La sua funzione – spiega il Professor Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma – è quella di isolare le cellule della risposta allergica, mettendole a contatto con l’allergene: se il bambino è allergico sulla superficie di queste cellule compaiono delle molecole che possono essere rilevate e contate. Il BAT test, dunque, fornisce informazioni cruciali sulla potenziale gravità della risposta dell’organismo a un alimento, e va a integrare gli strumenti, di cui oggi disponiamo, per valutare la presenza di un’allergia alimentare, tra cui i test cutanei, noti come Prick-test, il dosaggio delle IgE nel sangue, ovvero gli anticorpi specifici che innescano la reazione allergica, e il test di provocazione orale che consiste nella somministrazione di allergeni sotto la supervisione del medico, oggi considerato il gold standard per la diagnosi di allergie alimentari». Il BAT test contribuisce a dare una risposta diagnostica concreta a un bisogno clinico: vi è infatti evidenza di un aumento dell’incidenza e delle complessità delle allergie alimentari che colpiscono bambini e ragazzi, dove nuove forme emergenti, ad esempio l’allergia alle farine di insetti, al miele di melata o al latte di capra, su stanno affiancando all’incremento delle allergie più tradizionali come quella alle arachidi, alla frutta a guscio (nocciole, anacardi, pistacchi) che è passata negli ultimi 10 anni dal 3% all’8% dei casi pediatrici e l’allergia alle arachidi dall’1% al 6%, e al latte vaccino che invece è rimasta stabile a oltre il 15% della casistica, ma con una maggiore complessità di gestione, essendo spesso associata a reazioni ad altri alimenti (uova, grano, pesce).

«Quelle all’arachide e al latte – prosegue Fiocchi – rimangono le allergie alimentari più pericolose, in quanto maggiormente associate a reazioni gravi e potenzialmente fatali come l’anafilassi. In Italia, in media, 1 bambino su 50 è allergico a uno o più alimenti e, nel 16% dei casi, in forma grave, fino a poter registrare ogni anno purtroppo tra i 2 e i 4 decessi soprattutto tra i giovani sotto i 20 anni». Pertanto una diagnosi tempestiva e la presa in carico specialistica possono fare la differenza nella gestione efficace della malattia allergica, riducendo il rischio di complicanze gravi e migliorando la qualità della vita di bambini e famiglie. «Questo nuovo importante strumento diagnostico – conclude Alessandro Fiocchi – consente di definire con maggiore precisione il profilo di rischio di ciascun bambino e individuare la strategia terapeutica più adeguata, che oggi va dalle correzioni della dieta, evitando gli alimenti a cui il bambino/il paziente è allergico, alla desensibilizzazione orale ovvero l’introduzione pilotata dell’alimento tramite specifici preparati, per innalzare la soglia di tolleranza e, in alcuni casi selezionati, terapie avanzate come il farmaco Omalizumab che mantiene innocue le IgE circolanti nell’organismo». Mentre nuove soluzioni terapeutiche, come l’immunoterapia epicutanea, potrebbe rivoluzionare la gestione delle allergie alimentari nei prossimi anni, presto in sperimentazione al Bambino Gesù.

Francesca Morelli

 

 

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