“Faticosa ma soddisfacente” è considerata la qualità di vita dal 48% delle donne colpite da tumore del seno durante e dopo le terapie. Il 9% ricorre al “fai da te” per affrontare e risolvere le problematiche indotte dagli effetti collaterali dei trattamenti. Il 63% si rivolge invece direttamente all’oncologo oppure all’infermiere (19%) o al medico di famiglia (8%). Solo il 26% ha avuto un confronto con lo psiconcologo e di queste pazienti nove su dieci giudicano positivamente il supporto ricevuto. I dati provengono da un sondaggio condotto da Fondazione AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) su oltre 300 donne. La survey fa parte della campagna nazionale “Tumore del Seno e Qualità di vita” dedicata alla malattia in fase avanzata o metastatica, realizzata in collaborazione con Europa Donna e contributo non condizionato di Gilead: prevede webinar e attività sui social media. Saranno poi disponibili su AIOM TV (la web tv della Società Scientifica) video pillole con consigli utili degli esperti (oncologi e psiconcologi).
In riferimento alla figura dello psiconcologo, spesso trascurato e non tenuto nella dovuta considerazione, abbiamo intervistato Ketti Mazzocco, professore associato di Psicologia all’Università degli Studi di Milano e psiconcologa presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO).
Quale ruolo ha lo psiconcologo nel caso di donne con tumore al seno metastatico?
«La sua importanza si articola su due livelli: innanzitutto aiuta la paziente con tumore metastatico a trovare le risorse che le permettono di affrontare il periodo di trattamento cronico per poter migliorare la qualità di vita, e dall’altro lato contribuisce a rendere più efficaci i trattamenti. L’aspetto forse più complesso in queste pazienti, a differenza delle donne con tumore non metastatico, è associato al pensiero di morte, la percezione di mancanza di controllo e il senso di impotenza che satura il campo cognitivo ed emotivo. Il compito dello psiconcologo è ridimensionare questo vissuto lavorando su ciò che effettivamente possono controllare e su cui hanno potere: la gestione delle emozioni, il significato degli eventi, le decisioni che permettono di aumentare benessere anche in un contesto di malattia cronica. In tal senso, la cura psicologica vede l’integrazione del tradizionale supporto psicologico, con tecniche mente-corpo: meditazione, tecniche di rilassamento, Yoga, Tai Chi e Qi Gong. Questa integrazione permette di gestire emozioni incontrollate quali l’angoscia di morte, accanto ad un lavoro sull’accettazione di ciò che sta accadendo, come consapevolezza di una circostanza non modificabile».
La presenza del partner o di figli e nipoti potrebbe essere importante o può peggiorare lo stato d’animo della donna?
«Dipende da caso a caso. A volte i figli sono una risorsa: sono uno stimolo a vivere e cercare in tutti i modi di reagire alla malattia. E questo desiderio di vivere è presente sia nelle donne giovani, che vogliono vedere crescere i propri figli, ma anche in quelle più avanti negli anni che sono stimolate dalla presenza di veder nascere e crescere i nipoti. A volte però, possono diventare un ostacolo: l’idea di non poter vedere i figli o i nipoti è un fattore che potrebbe indurre la paziente a lasciarsi andare e cadere in uno stato depressivo.
Similmente, il partner può essere una risorsa o un ostacolo. Dipende dal tipo di relazione che è stata costruita nella coppia. Se la relazione è fondata su basi solide di ascolto, comunicazione e rispetto reciproco, la vicinanza del partner è certamente una risorsa. Per questo lo psiconcologo, laddove possibile e necessario, agisce anche sul “sistema famiglia”, per cercare di creare un ambiente il più possibile sereno, senza fattori di stress non gestibili che potrebbero influenzare la condizione di malattia e il percorso di cura».
Esistono studi che confermano miglioramenti degli effetti delle terapie nelle pazienti seguite da uno psiconcologo?
«C’è una ricerca molto recente, che dimostra come uno stato emotivo negativo della paziente, alla diagnosi e durante i trattamenti, peggiora la prognosi e l’efficacia delle terapie. L’intervento dello psicologo favorisce al contrario il miglioramento della prognosi e l’efficacia delle cure, intervenendo non solo sullo stato emotivo, ma anche su aspettative e credenze relativamente agli effetti collaterali delle terapie, come ad esempio nausea. Aspettative e credenze guidano l’attribuzione di significato e il comportamento. In altri termini se mi aspetto di avere nausea è più probabile che la nausea si presenti e con intensità elevata. Per questo è importante lavorare sull’accettazione di questi effetti come situazioni fisiologiche e non come condizioni devastanti e senza soluzione».
Considerando l’importanza di una figura come lo psiconcologo nel percorso di accettazione e anche nel miglioramento della risposta alla terapia, come sono inquadrati oggi questi professionisti nelle strutture oncologiche?
«I numeri dicono che lo psiconcologo non è presente in tutte le strutture, anche se questi professionisti sembrano diffondersi sempre più. Anche l’offerta formativa sta aumentando. All’Università di Milano è attivo un master di secondo livello in Psiconcologia, a cui possono accedere sia medici che psicologi. La Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO) ha una scuola specifica. Nei centri oncologici la loro presenza però è ancora bassa. Solo nelle Breast Unit è obbligatoria la figura dello psiconcologo. Ma uno solo non è sufficiente per tutti i pazienti presenti nel reparto. Esistono alcuni centri virtuosi, come quello del professor Saverio Cinieri di Brindisi, che sta investendo molto su questi professionisti perché ne vede l’utilità. Anche lo IEO e l’INT ha un buon numero di psiconcologi tra strutturati, liberi professionisti e universitari in convenzione. Ci sono però molte realtà in cui non ci sono, oppure c’è uno psicologo che si divide tra i vari reparti. In questo caso non è uno specialista di psiconcologia».
Ci sono pazienti che rifiutano l’intervento dello psiconcologo?
«Sì ci sono. Alcune perché effettivamente hanno le risorse per affrontare il percorso di cura. Altre perché stanno già svolgendo un percorso sul territorio. Altre perché sono già state da uno psicologo e non hanno avuto giovamento. Le motivazioni sono diverse e forse le donne più anziane fanno più fatica ad accettare questa figura come professionista sanitario che può essere d’aiuto nel percorso di cura oncologico. Molti pazienti però non riescono ad arrivare allo psiconcologo perché non vengono informati dalla struttura dove sono degenti. Forse lo psiconcologo viene ancora troppo spesso considerato una figura marginale. Ritengo sia importante sottolineare il suo ruolo come professionista che cura: non solo “supporto psicologico”, ma “integrazione alla cura”. Con questa convinzione sto coordinando un corso di laurea in Psicologia in Sanità, con un approccio integrato, in cui mente e corpo non sono distinti e i professionisti devono interagire e collaborare tra loro».
di Paola Trombetta