DALL’AFRICA, UN ESEMPIO DI ECCELLENZA SANITARIA E UMANA

L’eccellenza sanitaria, rivolta in particolare alla femminilità, alla maternità e al neonato, è possibile anche negli angoli più remoti del mondo. Ne sono testimonianza alcuni importanti progetti, presentati in occasione di “Nascere”, il Congresso nazionale di cure del neonato nei paesi a limitate risorse, organizzato a Milano dalla Società Italiana di Neonatologia (SIN). Tanti gli esempi di qualità di assistenza, di attenzione alla persona, di uguaglianza di accesso alle cure, nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

«Mamma e neonato, senza distinzione di razza, nazionalità o religione, devono essere un obiettivo di primaria importanza nell’ambito della cooperazione internazionale, a cui la nostra Società può e deve dare il proprio contributo», dichiara il dottor Mauro Stronati, presidente SIN. Tutte le esperienze umane, di condivisione, sofferenza, nascita, traguardi e sconfitte, sorte in contesti di estrema difficoltà, scarsità di risorse e mezzi che sopravvivono solo per il coraggio, la determinazione, la forza della speranza di chi le ha vissute, fatte crescere e difese fino alla stremo, meriterebbero di essere raccontate. Con la stessa empatia con cui sono state ascoltate nella sala dell’Università milanese, gremita di medici specialisti e di gente comune, orgogliosa di far parte di un’umanità che ancora crede nella bontà dell’Uomo, nel valore della scienza e della medicina condotta senza l’idea del profitto, animata dal desiderio di missione, di responsabilità sociale che spinge verso il prossimo, ad assistere la vita che ha bisogno, gratuitamente. Ci soffermiamo a raccontare quattro progetti, significativi, che accompagnano la vita dal suo nascere e la avviano verso il cammino dei primi giorni.

 

Nel Burkina Faso, un progetto per la tutela del neonato

Il primo arriva da un paese estremamente povero, il Burkina Faso, con il 70% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà, dove la malnutrizione è diffusa e colpisce soprattutto i bambini. Laggiù è molto difficile accedere alle cure mediche (il tasso di mortalità da parto è ancora molto elevato) e alla scolarizzazione, tanto che  il paese è al 181° posto rispetto alle 187 nazioni classificate per indice di sviluppo. A illustrare la situazione è Padre Paul Ouedraogo, camilliano, che racconta in un italiano quasi perfetto la sua storia e quella dell’Hopital Saint Camille, dove svolge la sua opera e missione. «Pur non avendo grossi mezzi e risorse, il nostro obiettivo era quello di migliorare la salute dei neonati attraverso la modifica delle procedure di assistenza, la modernizzazione delle attrezzature, l’elaborazione di protocolli utilizzabili anche dal personale locale e in contesti non avanzati». E così, da un lato, è nato il progetto Esther, sotto la guida e con la collaborazione, che dura ormai da dieci anni, di Medicus Mundi Italia che ha portato là personale italiano esperto, trasferendo conoscenze e metodologie a quel popolo, e poi il Nest (Neonatal Essential Survival Tecnology), un progetto con la Chiesi Foundation che ha introdotto in alcuni paesi emergenti tra cui anche il Burkina Faso, farmaci, attrezzature e formazione per le cure essenziali neonatali. «Negli ultimi 10 anni – conclude il Padre – abbiamo così avuto un sensibile miglioramento della sopravvivenza totale, passata dal 54% del 2005 a oltre il 65% del 2013». Un traguardo insperato, solo fino a poco fa.

 

In Congo, per la diagnosi precoce del tumore al collo dell’utero

In Africa, oltre al neonato, si difende anche la femminilità, in particolare dal cancro del collo dell’utero, che è il terzo tumore più frequente nelle donne a livello mondiale e la principale causa di morte per tumore tra quelle africane, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo dove i tassi di mortalità per questa patologia hanno raggiunto tassi di quasi il 29%. Così, grazie al consorzio Cesvi, Fondazione Veronesi, nell’ambito del progetto “Women Profile for Africa”, ai Patologi Oltre Frontiera, all’Università di Milano, si è implementato uno studio per valutare le problematiche e la fattibilità di uno screening, il pap-test, per prevenire o controllare il cancro del collo dell’utero a Kinshasa. «Avevamo l’obiettivo di capire quale fosse il test diagnostico più adatto a quelle latitudini», commenta il dottor Roberto Moretti, medico del servizio di promozione della salute dell’Asl di Bergamo e consulente della Fondazione Cesvi. «Così, oltre al Pap test, abbiamo preso in esame anche l’ispezione visiva del collo dell’utero con acido acetico e con lugol, in grado di far sospettare una diagnosi a occhio nudo, due metodiche ormai abbandonate in Occidente, ma che potrebbero essere efficaci in questi territori». Non è tutto, perché laggiù i medici stanno anche effettuando esami e analisi sulle urine: il test è al momento costoso, ma potrebbe diventare la prima scelta per scovare le cellule neoplastiche. I casi sospetti vengono avviati a una colposcopia e una biopsia: se i risultati confermeranno le aspettative degli specialisti, al Ministero della Salute locale e all’Oms verrà fatta una proposta di una campagna di prevenzione secondaria del tumore del collo dell’utero da attivare già a partire dal 2017, dapprima a Kinshasa e poi anche nelle aree periferiche. Perché, anche là, il cancro della cervice è diagnosticabile e prevenibile.

 

In Ecuador, un progetto per sostenere  la maternità

Poiché la donna è anche e soprattutto madre, in Ecuador si sostiene la maternità con un progetto della Clinica Mangiagalli di Milano. La regione di Esmeraldas, a nord del paese, è una delle zone più povere al mondo: l’area comprende tre distretti di Salute (Borbòn, Limones e San Lorenzo) per un totale di circa 100 mila abitanti, di cui 45 mila nel solo distretto di San Lorenzo, con un numero di parti attesi pari a circa 3000 all’anno. Il Sistema di Salute sul territorio è costituito da 10 centri: ciascuno prevede la presenza di un medico, con un’infermiera generica, ubicati “nell’area dispersa”, una zona costituita da villaggi lungo i fiumi, molti dei quali distano anche ore di navigazione dal primo centro abitato raggiungibile via terra e nella foresta. Questi centri confluiscono in tre ospedali, due dei quali (Borbòn e Limones) scarsamente attrezzati; il terzo è l’Hospital Divina Providencia di San Lorenzo. L’inaccessibilità geografica spesso non consente di usufruire delle cure sanitarie di prima necessità, tanto che il parto avviene per lo più a domicilio, nei villaggi, senza che la donna abbia effettuato controlli durante la gravidanza. Come conseguenza, la mortalità materna è molto elevata così come la mortalità infantile. «Il progetto Esmeraldas – aggiunge la dottoressa Maria Maddalena Ferrari, del Dipartimento per la Salute della Donna del Bambino e del Neonato, dell’Ospedale Maggiore di Milano – è nato dalla volontà di un gruppo di medici e ostetriche della Clinica Mangiagalli, per assistere le mamme in attesa con personale adeguato e migliori attrezzature e infrastrutture». Dopo un importante lavoro di potenziamento della rete ospedale-territorio, durato dieci anni in accordo con alcune tra le maggiori istituzioni italiane e ecuadoregne, è stato avviato un gemellaggio di tre anni tra la Fondazione Ca’ Granda e l’Hospital Divina Providencia di San Lorenzo. «L’unione delle due strutture – continua la dottoressa – ha consentito la ristrutturazione del vecchio reparto di degenza e l’edificazione di uno nuovo, nel contesto Hdp». Oggi il nuovo centro ostetrico vanta 20 posti letto, due sale operatorie, tre sale parto, una sala travaglio, la terapia intensiva neonatale, con una capacità di circa 3 mila parti l’anno, in linea con le esigenze del territorio. «Il gemellaggio tra strutture pubbliche italiane e il Ministero della salute dell’Ecuador – conclude la dottoressa – ha consentito di implementare in modo significativo il livello assistenziale di una struttura preesistente, raggiungendo buoni standard di cura qualitativa e quantitativa». Riducendo, cioè, i tassi di mortalità.

 

In Burundi, un programma contro la malnutrizione

Il nutrimento è vita, spesso però inadeguata o insufficiente nei Paesi in via di sviluppo, come nel Burundi dove l’allattamento materno, di scelta per tutti i neonati, spesso fornisce un apporto calorico-proteico insufficiente ai piccoli con basso peso alla nascita. Tanto che la malnutrizione incrementa la mortalità e la morbilità postnatale di questi neonati. «Scopo del nostro progetto era studiare e verificare la tollerabilità di una supplementazione calorico-proteica da aggiungere al latte materno, ottenuta da materie prime locali, quali farina di arachidi, mais, manioca, olio di semi di girasole e acqua potabile, facilmente reperibili e di basso costo, trattate con strumenti di comune uso domestico, come un robot da cucina», dichiara la dottoressa Silvia Angeli, pediatra dell’Ospedale Santa Chiara di Trento, che partecipa al progetto realizzato in collaborazione con la Fondazione Pro-Africa e l’Hôpital Autonome de Ngozi. «L’apporto calorico e nutrizionale fornito – conclude la pediatra – si è rivelato significativo, soprattutto in situazioni in cui solo il latte materno è variabile e tendenzialmente insufficiente, con una tolleranza alimentare superiore all’atteso, ovvero con un solo caso di diarrea e nessun’altra sintomatologia gastrointestinale (vomito ripetuto, coliche, distensione addominale)». L’eccellenza dunque non nasce dalla larga disponibilità economica, ma dall’attenzione alla vita e alla sua qualità.

di Francesca Morelli

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