Amiloidosi cardiaca: presto una nuova cura

Nuove terapie, in arrivo anche in Italia, possono cambiare la storia dell’amiloidosi cardiaca. Una malattia rara con meno di cinque diagnosi all’anno su una popolazione di 10 mila persone, “camaleontica”, capace di mimare nella sintomatologia, molte patologie più comuni, diffuse e note, confondendo le carte in tavola con un ritardo diagnostico mediamente di circa 1,5 anni dal sintomo al suo riconoscimento: multiorgano, con possibile interessamento del cuore e di diversi altri apparati. Potenzialmente grave, ingravescente e degenerativa, l’amiloidosi cardiaca (CA) è causata dal deposito di specifiche proteine nei vari organi. «Esistono 42 tipi di amiloidosi – spiega il Professor Giovanni Palladini, Direttore del Centro Amiloidosi Sistemiche e Malattie ad Alta Complessità della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia – ma quelle che più comuni in Italia e nel mondo, sono l’amiloidosi a catene leggere (AL), dovuta a una disfunzione del midollo osseo e l’amiloidosi cardiaca da transtiretina (ATTR-CM), dipendente da una proteina prodotta per il 98% dal fegato, che circola nel sangue trasportando l’ormone tiroideo T4 (Tirosina) e la Vitamina A (retinolo).

A sua vola questa forma si suddivide in wild-type (ATTR-wt) legata all’invecchiamento e ereditaria (ATTR-v), causata da mutazioni genetiche. Una differenziazione importante che guida un diverso approccio diagnostico-terapeutico». La capacità dell’amiloidosi di nascondersi dietro ad altre malattie la rende spesso sottodiagnosticata, con tutte le implicazioni che questo comporta: la “sfida” della ricerca è di poter arrivare ad anticipare la diagnosi, quindi a rilevare la malattia ancora prima che manifesti i sintomi e iniziare un programma di prevenzione. Spesso la diagnosi, soprattutto nelle forme cardiache, è una corsa contro il tempo. Allora quali sono gli strumenti per raggiungere questi obiettivi? Servono le competenze innanzitutto, da parte dei clinici, sapere ad esempio che esistono delle “Red Flags”, delle indicazioni che possono far sospettare la malattia, quali lo scompenso cardiaco a frazione di eiezione conservata, in cui cioè il volume del cuore nel corso dei battiti viene preservato per il 50% e che rappresenta una sorta di mascheramento dell’amiloidosi, la sindrome del tunnel carpale (bilaterale) che può anticipare la diagnosi di amiloidosi anche di 10 anni, alcuni problemi ortopedici, il coinvolgimento del sistema nervoso periferico che dà formicolii, parestesie e perdita della sensibilità degli arti superiori, un interessamento renale con perdita di proteine nelle urine, particolari aloni attorno agli occhi, ma soprattutto la combinazione di una o più di queste manifestazioni insieme. Esistono differenze di genere: «La forma ATTR-CM non mutata – prosegue il Professor Palladini – è 10 volte superiore nel maschio, rispetto alle donne, negli altri casi invece c’è una incidenza lievemente maggiore nel sesso femminile. Ma la malattia porta con sé un peso importante, legato alle diverse età di insorgenza della patologia che ne determinano esigenze cliniche e non solo, diverse rispetto al sesso e all’impatto psicologico. Ad esempio alcune forme sono gravate dal non avere ad oggi terapie di trattamento efficaci, o dalle paure della donna in età fertile di scoprire di avere una malattia rara, ereditaria, pari al 10% delle amiloidosi cardiache e potenzialmente grave, a cui voglio dire che le terapie ci sono». Sospetti, tutti, che possono poi essere confermati da strumenti diagnostici non invasivi come l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma che insieme possono evidenziare delle disparità già indicative di possibile malattia, la scintigrafia ossea con traccianti, una tecnica ad altra specialità che permette di visualizzare i depositi di amiloide nel miocardio, il dosaggio di specifici biomarcatori o la risonanza magnetica, che consentono di evitare la biopsia riservandola solo ai casi di sospetto diagnostico incerto. Poi serve una “rete”, una squadra di tecnici – cardiologi, nefrologi, ematologi, neurologi, anatomopatologi per la diagnosi – guidati da un “leader” dedicato, con specifica expertise che funga da coordinatore-regista, presenti insieme all’interno dell’Ospedale, permettendo al paziente di eseguire il suo percorso di indagine il più rapidamente possibile, anche in una stessa giornata.

«Presso il nostro centro di Pavia – fa sapere Palladini – abbiamo strutturato un primo triage in telemedicina per cui i pazienti cominciano a fare gli esami a casa dietro nostra indicazione,
differenziati secondo le classi di rischio e il tipo di amiloidosi, consentendoci nelle forme con interessamento cardiaco, in cui occorre fare in fretta, di ridurre il tempo alla diagnosi a 4 mesi, contro l’anno/anno e mezzo». Oppure sono utili percorsi dedicati. «Nella nostra Azienda – aggiunge la Dottoressa Samuela Carigi, Cardiologa, Responsabile dell’Ambulatorio Scompenso e Cardiomiopatie dell’Ospedale Infermi di Rimini dell’AUSL Romagna – abbiamo messo a punto un PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale) interdisciplinare rendendoci conto che i pazienti con amiloidosi possono essere segnalati o arrivare da più esperti – il neurologo, l’ematologo in caso di mielopatie, il radiologo, l’oculista, il gastroenterologo per particolari forme di stipsi e diarrea. Mettere insieme un gruppo di lavoro ed esperti che colloquia, anche tramite una chat condivisa da più centri ospedalieri facenti parte di una stessa azienda, ha generato un interscambio di pazienti e una anticipazione diagnostica importanti, avviandoli al corretto trattamento più rapidamente».

Particolare attenzione va riservata a pazienti con presunte forme ereditarie, che sono molteplici e dovute a diverse molecole, di cui alcune anche legate alla transtiretina, e con manifestazioni cliniche diverse l’una dall’altra che vanno dal sistema nervoso periferico, al cuore, con una vasta serie di forme intermedie, da avviare insieme ai familiari, a indagini e counselling genetico. Tali tecnologie diagnostiche e strategie di approccio devono essere rese disponibili su tutto il territorio nazionale, potenzialmente anche a Paesi non del mondo occidentale, allestendo una rete internazionale che consenta così un maggiore e più facile accesso ai farmaci: le cure ci sono, e sono sensibilmente migliorate e aumentate nel corso degli ultimi anni. «Sappiano ad esempio che in tutte le fome di amiloidosi – informa Palladini – è possibile agire sui precursori, cioè sulla proteina tossica, che può essere eliminata o stabilizzata rendendola incapace di produrre amiloide, con l’auspicio si estendere questa strategia anche alle forme AL».

Negli ultimi anni, l’amiloidosi da transtiretina, sia nella forma ereditaria che in quella senile, ha beneficiato dell’arrivo di nuove terapie mirate e altamente selettive. «Le opzioni terapeutiche oggi disponibili – prosegue la dottoressa Carigi – sono silenziatori che riducono la produzione epatica di TTR e stabilizzatori della TTR che per un particolare meccanismo bloccano la formazione delle fibrille amiloidi. Mentre si sta sperimentando il gene editing, cioè la sostituzione del gene malato a livello del DNA, con la prospettiva futura di agire direttamente sui depositi di amiloidosi già presenti. Studi in corso sembrerebbero dimostrare ad esempio che alcuni autoanticorpi, legandosi alle fibrine di amiloide, ne favorirebbero l’eliminazione da parte del sistema macrofagico. Infine è atteso l’arrivo di un nuovo farmaco che mima la mutazione di un gene della transtiretina, risultata protettiva contro la malattia, offrendo un’opzione mirata per rallentare la progressione dell’amiloidosi e migliorare la qualità di vita dei pazienti ed importanti esiti sulla riduzione dei ricoveri e della mortalità».

di Francesca Morelli

Il nuovo farmaco in arrivo, sicuro e ben tollerato

Si chiama Acoramidis: è un nuovo farmaco mirato per il trattamento dell’amiloidosi cardiaca da transtiretina (ATTR-CM) e mima la mutazione protettiva T119M dimostrando in uno studio registrativo, a cui ha partecipato anche l’Ospedale Infermi di Rimini, un’efficacia precoce, già osservabile dopo 3 mesi di trattamento sulla riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause o ricoveri ricorrenti (-42%) e sul rischio annualizzato di ospedalizzazioni (-50%). «Acoramidis può determinare la stabilizzazione quasi completa della transtiretina (TTR) mediamente fino al 95%, bloccando cioè la cascata di eventi che portano alla formazione delle fibrille e il successivo deposito nei tessuti – conclude la Dottoressa Carigi – impattando gli outcomes clinici e funzionali, ma per un efficace effetto terapeutico dei farmaci resta necessario anticipare la diagnosi. È quindi essenziale riconoscere le “Red Flags”, in tempo utile». Il farmaco, inoltre, si è dimostrato sicuro e ben tollerato.  F.M.

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