Leucemia Mieloide Cronica: la ricerca che migliora la qualità di vita

«Mi hanno diagnosticato la Leucemia Mieloide Cronica nel 2006: sono quasi 21 anni che ci convivo. È stata scoperta per caso da un banale esame del sangue che aveva evidenziato un aumento di globuli bianchi che non si abbassavano. Il medico mi aveva prescritto gli esami perché un giorno sono svenuta all’improvviso, camminando per strada. E questo è stato l’unico sintomo che ho avuto. Sono stata subito indirizzata e presa in carico dalla dottoressa Elisabetta Abruzzese dell’Ospedale Sant’Eugenio di Roma. All’epoca avevo 36 anni e non avevo figli: subito la dottoressa si era premurata di rassicurarmi e farmi capire che, nonostante la malattia, avrei potuto avere una vita normale: la ricerca è andata molto avanti e questa patologia consente oggi un’aspettativa di vita lunga e anche la possibilità di programmare una gravidanza. La diagnosi ovviamente è stata un trauma, ma ho avuto questo salvagente dalla dottoressa, e anche dal gruppo che mi ha preso in carico, e mi ha molto tranquillizzata. Addirittura mi aveva detto di andare in vacanza, in quanto ho ricevuto la diagnosi il 10 agosto. Mi è stata prescritta inizialmente una terapia, oncocarbide, prima di iniziare un trattamento con dosi massicce del farmaco all’epoca molto innovativo e mirato. Sono stata inserita in una sperimentazione che prevedeva un dosaggio doppio ed è stato molto faticoso: dopo un mese non riuscivo più a camminare e stavo malissimo. Per questo è stato in seguito ridotto il dosaggio. Ma questa terapia d’attacco ha permesso di bloccare subito la malattia: da sei anni ho sospeso i farmaci e la malattia sembra essere in remissione completa, anche se devo sempre fare controlli periodici. In questi anni ho avuto modo di conoscere l’Associazione Bianco Airone dove sono presenti gruppi di sostegno psicologico a cui ho partecipato e che abbiamo mantenuto negli anni. Dopo la pandemia, abbiamo pensato di tenere uno sportello aperto tutti i giorni all’ Ospedale Sant’Eugenio e da due mesi l’abbiamo inaugurato anche al San Filippo Neri e all’Ospedale Santo Spirito. Da due anni sono presidente dell’Associazione e mi propongo di supportare quelle persone in difficoltà come me, quando ho ricevuto la diagnosi. Mi preme far sapere che, oltre al sostegno psicologico che mettiamo a disposizione tutta la settimana gratuitamente, cerchiamo di promuovere incontri tra medici e pazienti. In più abbiamo attivato un servizio di Reiki in reparto, oltre alle visite con un dermatologo per risolvere eventuali problemi che si presentassero sulla pelle, a causa dei trattamenti. E questi servizi vengono molto apprezzati dai pazienti».

La testimonianza di Anna Galante, presidente dell’Associazione Bianco Airone (www.biancoairone.it) è molto importante e incoraggiante per i più di 10 mila pazienti con Leucemia Mieloide Cronica (LMC), un tumore raro del sangue che vivono oggi in Italia. Grazie ai progressi della ricerca scientifica, l’aspettativa di vita è oggi sovrapponibile a quella della popolazione generale. Tuttavia, restano alcune sfide importanti da vincere: come evidenziano i risultati dello studio ASC4FIRST, 25%-30% dei pazienti di nuova diagnosi in trattamento con le terapie standard non riescono a raggiungere una risposta adeguata e interrompono o cambiano il trattamento a causa degli effetti collaterali. La ricerca italiana “La qualità di vita dei pazienti con LMC”, promossa da Novartis Italia e realizzata da Elma Research, evidenzia la necessità di tenere in considerazione anche i bisogni legati alla gestione quotidiana e alla qualità di vita a lungo termine. La ricerca ha approfondito il vissuto dei pazienti con LMC e l’impatto della patologia e dei trattamenti sulla loro vita: sono state coinvolte 146 persone con diagnosi di LMC, il 51% dei quali sono pazienti in prima linea di trattamento. I dati della ricerca Elma rivelano che circa 1 paziente su 3 valuta negativamente la propria qualità di vita: l’aspetto più gravoso è dato proprio dagli effetti collaterali della terapia: il 40% dei pazienti li ha sperimentati; per il 36% gli effetti collaterali non sono mai terminati (tra i più frequenti stanchezza cronica, crampi, aumento del peso, gonfiore agli occhi, nausea e diarrea). Inoltre circa il 30% dei pazienti riferisce un impatto molto elevato sulla sfera psicologica.

Con la consulenza della dottoressa Elisabetta Abruzzese, dirigente medico di Ematologia, all’ Ospedale Sant’Eugenio di Roma, cerchiamo di capire cos’è la Leucemia Mieloide Cronica e quali i progressi nelle terapie.

«Si tratta di una patologia della cellula staminale midollare che interessa circa 15 mila pazienti in Italia. Si presenta come forma cronica, non acuta e questo è importante rispetto alle leucemie a cui siamo soliti pensare. La forma cronica si sviluppa lentamente nel tempo e in genere non guarisce. Con l’evento degli screening ematologici, che vengono fatti abitualmente, questa malattia viene riconosciuta precocemente perché si alzano i globuli bianchi e le piastrine. A questo punto vengono fatti i test molecolari per confermare la presenza di un’alterazione genica, che si sviluppa a livello di una cellula staminale midollare ed è caratteristica della Leucemia Mieloide Cronica. Vorrei precisare però che non è trasmissibile, perché l’alterazione si sviluppa e rimane a livello del midollo osseo».

Esistono delle cause scatenanti?
«Le cause precise non sono note. Potrebbero essere le stesse di altre alterazioni genetiche, come le radiazioni ionizzanti, il benzene, ma non c’è una causa specifica, oltre a queste ipotizzate».

Con quali sintomi si presenta la malattia?
«I sintomi classici sono stanchezza, astenia, perdita di peso, gonfiore e dolore addominale che interessa soprattutto la milza uno degli organi emopoietici che produce cellule del sangue e in questa malattia tende ad ingrossarsi. Raramente si manifestano sintomi più importanti. Il paziente, quando arriva alla diagnosi, presenta dunque spesso pochi sintomi. Nonostante la diagnosi crei ovviamente ansia nel paziente, cerchiamo sempre di tranquillizzarlo, confermando che oggi esistono terapie mirate che possono cronicizzare la malattia. Nei Paesi occidentali l’età media di insorgenza è intorno a 60 anni, ma nei Paesi emergenti l’età media si abbassa anche di 15-20 anni. Inoltre dal Registro italiano risulta che il 40% circa delle donne malate sono in età fertile. Pertanto diventa indispensabile considerare già alla diagnosi un eventuale progetto di procreazione».

È possibile conciliare questa patologia con un progetto di gravidanza?
«Partiamo dal concetto che è cambiata la storia di questa patologia con l’avvento di farmaci mirati, in grado di bloccare la proteina che si sviluppa dall’alterazione genetica alla base della malattia, responsabile dello sviluppo della stessa. I farmaci però devono essere assunti costantemente per tutta la vita, o comunque per diversi anni prima di valutare la possibilità di una sospensione e gli stessi possono essere teratogenici, pertanto non possono essere assunti in corso di gestazione. Come è allora possibile conciliare desiderio di maternità e cura della patologia? In Italia già dal 2012 è stato sviluppato un progetto, primo al mondo, supportato da GIMEMA (Gruppo Italiano Malattie EMatologiche dell’Adulto), che si occupa di promozione e sviluppo della ricerca sulle malattie ematologiche: ha raccolto informazioni, sviluppato raccomandazioni, ed elaborato scenari che possono aiutare il medico a programmare o a gestire una gravidanza. Purtroppo fino a pochi anni fa gli ematologi non erano preparati ad affrontare questa situazione, in quanto i farmaci utilizzati risultavano incompatibili con una gravidanza. Oggi, proprio grazie alla ricerca italiana, studiando i meccanismi d’azione degli stessi, la malattia, le varie fasi dello sviluppo embrionale e nuovi e vecchi (come l’interferone) farmaci, nonché avvalendosi di tecniche di fecondazione assistita in casi selezionati, è possibile gestire con esito positivo quasi tutte le situazioni, programmate o inattese che possono presentarsi. Lo studio italiano ha raccolto dati in circa 100 pazienti di sesso femminile ed altrettanti di sesso maschile: è stato poi “esportato” a livello europeo attraverso l’European Leukemia Net e qui sono stati raccolti più di 400 casi di donne che hanno avuto una gravidanza in corso di malattia. Ci sono stati addirittura 89 casi di pazienti che hanno scoperto di avere una leucemia mieloide cronica in corso di gravidanza, che hanno potuto portare a termine la stessa e trattato con successo la malattia. Ovviamente la preparazione su questo argomento del medico ematologo e la presenza di un team che possa gestire queste situazioni, risulta fondamentale, ma il messaggio importante è che la possibilità di una gravidanza è concreta e fattibile. Ricordiamo che i farmaci devono essere selezionati in queste situazioni. Quelli solitamente utilizzati (inibitori delle tirosinochinasi) sono teratogenici: non devono essere utilizzati tra la 5a e la 12° settimana di gestazione, quando gli organi del feto si sviluppano, e in caso di necessità è sempre suggerito contattare centri di riferimento (come appunto l’Ospedale S. Eugenio) per consulenza».

Quali tipologie di farmaci si possono utilizzare durante la gestazione?
«In realtà si può usare solo l’interferone per la Leucemia Mieloide Cronica. Anche le pazienti che scoprono la malattia in gravidanza, possono cambiare la terapia nel corso della gestazione o anche sospenderla per un certo periodo, secondo le loro condizioni cliniche. Dipende molto dai tipi di farmaci che stanno assumendo».

Cerchiamo di valutare quali farmaci vengono oggi utilizzati per questa malattia?
«Il Glivec, che è stato il precursore degli altri farmaci, agisce su una proteina che si forma per la fusione di due geni, di cui uno è un oncogene (ABL) che si sposta dal cromosoma 9 al 22, unendosi a un altro gene (BCR). L’unione di questi due geni porta alla formazione di una proteina anomala, la cui caratteristica è di attivare l’oncogene che dice al midollo di produrre le cellule. Il meccanismo d’azione è di tipo tirosinchinasico, ed è comune ad altre cellule presenti nell’organismo. Questi farmaci, denominati inibitori delle tirosinochinasi, vanno a spegnere questa proteina (BCR-ABL), determinando un ripristino dell’attività cellulare normale, mentre prima c’era uno sviluppo incontrollato di alcune cellule, che causavano la malattia. Abbiamo 5 diversi tipi di inibitori delle tirosinchinasi e ciascuno ha le proprie caratteristiche e peculiarità. I farmaci di ultima generazione agiscono su un sito particolare della molecola alterata e sembrano essere più mirati. Possono anche essere utilizzati insieme agli inibitori delle tirosinchinasi e colpire siti diversi: i risultati sono promettenti, ma si usano da poco tempo, pertanto ci auguriamo possano determinare un più ampio margine di successo e migliore controllo degli effetti collaterali della terapia».

Con questi nuovi farmaci si potrebbe evitare il trapianto di midollo?
«Il trapianto risolve la malattia perché si cambia il midollo. Ma è gravato da una mortalità e morbilità molto importanti. Viene perciò riservato a quei pazienti giovani che hanno malattia resistente e necessitano qualcosa di diverso, come il trapianto, per evitare la progressione: per fortuna le terapie mirate ne hanno ridotto il ricorso in rari casi».

di Paola Trombetta

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