AFFETTI E EMOZIONI AL TEMPO DEI SOCIAL MEDIA

Una persona su quattro utilizza i social media ed entro il 2017 gli utilizzatori saranno due miliardi e mezzo nel mondo. Facebook, Twitter, WhatsApp, Pinterest ed altri social media di recente generazione, in uso soprattutto tra i giovanissimi (i cosiddetti “nativi digitali”), fanno ormai parte integrante del vivere quotidiano. Non fosse altro per il tempo che ognuno di noi dedica a questi strumenti digitali, non più semplici mezzi di comunicazione, ma elementi fondamentali delle nostre relazioni col prossimo, anche con persone sconosciute, in qualsiasi parte del mondo. Sull’argomento hanno dibattuto ricercatori ed esperti in occasione del recente Congresso “Mente e social media: come cambia l’individuo?”, organizzato dall’Università Cattolica di Milano, con il patrocinio della Fondazione Ibsa.

Un aspetto rilevante dei social media riguarda il tipo di vissuti emozionali e le aspettative che riponiamo in essi. <In Italia abbiamo una relazione soprattutto affettiva con il mezzo tecnologico>, conferma Giuseppe Riva, docente di Psicologia della Comunicazione e delle Nuove Tecnologie della Comunicazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, autore del libro “Nativi Digitali” (Il Mulino)>.  <Pensiamo a quanto lo smartphone e il mondo di Internet siano diventatati il centro della nostra vita affettiva/relazionale, l’equivalente virtuale dei luoghi di aggregazione del passato: stando comodamente a casa propria o da qualsiasi parte del mondo, Facebook risponde alla natura degli italiani, in particolar modo per la sua funzione di connessione affettiva e rassicurante». In questo contesto della trasmissione immediata di messaggi di affetto e di rassicurazione si colloca anche la moda del selfie. Sull’argomento il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica ha presentato una ricerca, condotta su 150 persone (35% maschi e 65% femmine), con età media di 32 anni, soprattutto studenti e neo-laureati.

«Un selfie è da considerare differente da un semplice “autoscatto”, che non prevede la componente social della condivisione>, fa notare Giuseppe Riva. <Vista la diffusione dei selfie e il grande interesse che essi suscitano presso l’opinione pubblica, la stampa specializzata internazionale ha cercato di approfondire il fenomeno e di comprendere la sua natura, il suo significato e le sue conseguenze. La nostra ricerca, tuttora in corso, si propone tre obiettivi:

-Comprendere perchè le persone si fanno i selfie (quali motivazioni le spingono);

-Se ci sono differenze tra uomini e donne per quanto riguarda questa pratica;

-Analizzare le possibili caratteristiche psicologiche delle persone che si fanno selfie>.

Per quanto riguarda il primo obiettivo della ricerca, è emerso che gli scopi riconosciuti all’attività del selfie sono soprattutto “far ridere e divertire gli altri” (39%), “vanità” (30%) e “raccontare un momento della propria vita” (21%). Quanto ai motivi per cui le persone si fanno i selfie, emerge che se li fanno non tanto per esprimere come sono o come si sentono (identità, aspetti interiori) bensì per raccontare agli altri con chi sono, dove sono e cosa stanno facendo (aspetti esteriori).

Per quanto riguarda il secondo obiettivo di ricerca, le donne si fanno molti più selfie degli uomini, e risultano più interessate alle motivazioni interiori (“mi faccio selfie per mostrare come sono e come mi sento”). Inoltre, affermano di sperare maggiormente di ricevere commenti positivi dagli amici sui social network, e anche di temere maggiormente di ricevere commenti negativi dagli altri.

<Per quanto riguarda l’ultima domanda di ricerca – conclude Giuseppe Rivasono tre gli aspetti della personalità che risultano associati all’attività del selfie. Le persone che si fanno selfie, rispetto a coloro che non se li fanno, appaiono significativamente più estroverse (ovvero più socievoli ed entusiaste, caratterizzate da elevate capacità sociali) e più coscienziose (ovvero più caute e capaci di controllarsi, con la tendenza a pianificare le proprie azioni piuttosto che ad agire di impulso). Inoltre, essere molto estroversi si associa a un maggior utilizzo dei selfie per mostrare agli altri “come ci si sente”, mentre essere molto coscienziosi si associa al non essere particolarmente interessati ai commenti degli altri ai propri selfie, positivi o negativi che siano. Da ultimo, il tratto di instabilità emotiva (tipico di persone che tendono a provare emozioni negative come rabbia e tristezza, sovente diffidenti nei confronti degli altri) si associa significativamente all’essere particolarmente preoccupati dalla possibilità di ricevere commenti negativi».

Un commento a riguardo viene dal giornalista e scrittore Gianni Riotta, grande utilizzatore del web e dei social media, autore di Il web ci rende liberi? (Einaudi), già docente di comunicazione a Princeton e residente a New York: «Ci sono grandi differenze tra gli USA e l’Unione Europea quando si parla di sviluppo e tecnologia in generale. La cultura USA è più aperta al cambiamento, fiduciosa verso la tecnologia, più modernizzante: pensiamo ad esempio all’irruzione dello shale-gas nel mercato energetico o alla accettazione degli OGM negli States, e di contro riflettiamo invece sulle barriere e le paure che molte innovazioni sollevano in Europa: L’Italia ad esempio ha paura dell’innovazione, va online, ma non utilizza il web con lo stesso atteggiamento di ricerca che si riscontra all’estero: ricerche internazionali da anni mostrano una predilezione italiana per i social network (e soprattutto per FB rispetto a Twitter ad esempio, fatta eccezione per i giovani che prediligono Twitter e Whatsapp). Se usiamo il web in modo intelligente abbiamo accesso a una tecnologia che apre possibilità e per questo è affascinante. Dobbiamo ricordarci però che dietro alla tecnologia ci sono le persone: pensiamo al successo di alcuni personaggi, come lo stesso Papa Francesco, per la forza del suo messaggio e del suo esempio».

Ma quali sono allora le implicazioni nello sviluppare la propria mente e la propria identità in un mondo digitale? Risponde la giovane Kate Davis, professore associato all’University of Washington Information School, autrice con Howard Gardner di “Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale” (Feltrinelli) e di numerosi studi condotti con i colleghi della Harvard University, comprese interviste dirette con i giovani, focus group, nonché un raffronto originale e unico di produzioni artistiche giovanili, prima e dopo la rivoluzione digitale. <La metafora della “app” serve a valutare gli usi di una tecnologia che promuove un forte senso di identità, favorisce relazioni, stimola la creatività. A scapito, magari, di relazioni meno profonde, più superficiali ed emotive. Le app e le altre tecnologie multimediali di per sé non inducono la gente a comportarsi in un certo modo: è l’interazione tra tecnologia e società che incoraggia certe forme di comportamento (ad esempio il bullismo sui social media), oppure, allo stesso tempo ne scoraggia altre. La tecnologia insomma non è né buona, né cattiva: è l’uso che se ne fa ad essere buono o cattivo».

di Paola Trombetta

 

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