QUANDO IL CAPO E’ DONNA…

Sì, le donne manager oggi hanno qualcosa da dimostrare. Di poter fare la differenza come capi anche nelle organizzazioni, mantenendo una propria diversità, personalità, autonomia rispetto al modello maschile dominante. Ne è fermamente convinta Maria Cristina Bombelli, docente di organizzazione del lavoro all’Università di Milano Bicocca, una delle maggiori esperte italiane di diversity management, presidente di Wise group e autrice di diversi saggi: Alice in businessland. Diventare leader rimanendo donne, pubblicato da Guerini e Associati e La Passione e la Fatica (Baldini Castoldi Dalai).

Ma per abbattere le barriere invisibili dei pregiudizi maschili e poter scalare i vertici aziendali, le donne devono però compiere un percorso di consapevolezza, allo scopo di vincere la loro tendenza ad autoescludersi, lavorando sulle proprie peculiarità per trasformarle in vantaggi strategici. Perché, dice Cristina Bombelli, i comportamenti individuali sono vincenti più delle dinamiche organizzative. Ascoltiamola.

 

Dal suo osservatorio, qual è l’identikit che emerge delle donne che lavorano?

«Amano il loro lavoro, su cui puntano molto. In nome di una realizzazione personale che non riesce più a esaurirsi nell’essere solo mogli o madri. Le donne si sono liberate da quell’alternativa radicale che imponeva loro una scelta drastica: o la carriera o la famiglia. Il lavoro è un piacere, rappresenta una possibilità di gratificazione personale, diventa un elemento fondamentale della propria identità. E’ un passaggio molto importante. anche se non tutte, purtroppo, l’hanno realizzato perché molte ancora oggi lavorano per la necessità di guadagnare. Allora cambia il rapporto, nel senso che cambia quello che io richiedo al lavoro come persona che ha una passione, e quello che il lavoro mi può dare. E quindi molto spesso c’è una frattura, una cesura».

Conciliare lavoro e famiglia: è questo che blocca la scalata ai vertici?

«Non penso che il problema sia la maternità. Se noi continuiamo – intendo noi donne e chi se ne occupa – a dire che il problema delle donne è la cura dei figli, aumentiamo lo stereotipo che oggi alberga nella maggior parte delle aziende italiane. C’è qualcosa che non quadra: come mai, allora, le donne single e che non hanno figli, o quelle sposate senza figli non fanno carriera? Mi rendo conto che, sostenendo questo, mi espongo a critiche perché è vero che la maternità rappresenta un problema e che la conciliazione è difficile, però mi sembra che l’ostacolo più grosso, in questo momento, siano i meccanismi di carriera, profondamente cooptativi. Il potere aziendale è saldamente territorio maschile, non cede davanti al merito. Anche il tema della cultura del tempo è uno dei fattori che più escludono le donne, perché la cultura prevalente, oggi in Italia – anche qui parlo di uno stereotipo, ma che pare diffusissimo – è che chi sta più a lungo in ufficio è più bravo: c’è ancora questa grossa deformazione mentale, che la presenza equivalga al lavoro».

 

Qual è allora la vera fatica per le donne?

La famosa fatica non è solo quella della conciliazione, ripeto, ma anche quella, interiore, che le donne devono fare per legittimarsi in contesti maschili. Hanno master e specializzazioni ma vengono retribuite meno dei colleghi maschi. Hanno energia, entusiasmo, senso di responsabilità, ma i maschi vengono promossi più velocemente in relazione al loro potenziale. Colpa di modelli organizzativi pensati per gli uomini e di antiche abitudini. Ma anche le donne ci mettono del loro, con alcuni comportamenti non fanno altro che autoescludersi.

Quali sono questi punti deboli nel comportamento che si riscontrano con maggiore frequenza?

Nell’ambiente di lavoro “prendono le cose sul personale”, invece di vedere le dinamiche organizzative con lucidità. Spesso hanno difficoltà a giudicare se stesse in modo obiettivo. Non sono abituate a darsi il giusto valore. Tutto questo le porta, ad esempio in caso di una posizione aperta in azienda, ad avere dubbi sulle proprie competenze. Sono grandi lavoratrici ma non si mettono in mostra. Sanno fare molto e bene ma non si danno il giusto valore. Producono, ottengono risultati ma non lo fanno notare, si aspettano che i loro meriti siamo riconosciuti e premiati . Per questo non rivendicano. Hanno verso l’azienda un’aspettativa giustamente meritocratica: pensano che il lavoro ben fatto sarà visto, apprezzato e remunerato. Di conseguenza non lo valorizzano, non si fanno pubblicità e il loro lavoro finisce per passare sotto silenzio. Quel che più conta è fare un lavoro che piace. E se piace, ci può essere una remunerazione economica insoddisfacente, ma questa è un retaggio della dimensione gratuita che ha sempre avuto il lavoro femminile.

Qual è il valore della differenza che le donne portano in azienda?

La diversità è un valore e, quindi, è con l’equilibrio del maschile e del femminile che si producono le cose migliori. Questo lo voglio dire subito perché è difficile ragionare sul maschile e sul femminile senza cadere in stereotipi. Non vorrei – e sono molto categorica su questo punto – accreditare l’idea del “maschile cattivo/femminile buono”. Ovviamente le donne non sono tutte uguali, ma alcune caratteristiche sono spesso più femminili: far crescere i propri collaboratori, saper gestire i conflitti in modo propositivo, ascoltare le opinioni degli altri. Tendiamo naturalmente, il più delle volte, a voler comporre i conflitti piuttosto che a radicalizzarli… Perché vogliamo lavorare in un clima più rilassato, più umano. Valorizziamo aspetti che gli uomini tengono in scarsa considerazione. Per esempio l’empatia, figlia dell’intelligenza emotiva, che migliora la comunicazione o l’innata flessibilità, potente facilitatore del cambiamento. Caratteristiche, queste, che servono alle organizzazioni e che sono spesso poco valorizzate. Per questo saranno sempre più riconosciute. Ormai è comprovato dai fatti. Le imprese che con più alta presenza femminile al top ottengono migliori risultati. E  sarebbe uno spreco sociale non utilizzare questi talenti!

Cosa suggerisce allora?

Le donne hanno le carte in regola per i posti di comando, ma devono convincersi che possono farlo. Devono prendere consapevolezza del proprio valore. Mostrando che è possibile schivare l’aut-aut tra assimilazione ed esclusione.

Donne e potere: un rapporto complicato, talvolta ambiguo…

C’è in generale una difficoltà delle donne a capire i meccanismi non espliciti del potere. Forse legata alla minor pratica di queste cose, forse all’attitudine a lavorare badando alla sostanza piuttosto che al modo con cui costruire e tutelare la propria posizione. Le donne non desiderano comandare tout court, ma esprimere se stesse nel lavoro. Più del potere conta il fatto di svolgere un lavoro che soddisfa le proprie inclinazioni, e si svolga in un ambiente in cui armonia e collaborazione siano i valori dominanti. Spesso al potere si associano connotati negativi legati al desiderio di comando. Allora alle donne dico: non bisogna avere paura del potere né della sua gestione. Si tratta della possibilità di incidere in modo più o meno efficace o visionario sullo status quo, è quindi una leva che ha anche connotati assolutamente positivi. Potere vuole anche dire libertà di esprimersi, far accadere le cose, cambiarle.

Gli sforzi da compiere invece sul piano organizzativo?

La parola chiave, secondo me, è proprio questa: meritocrazia, che considero molto importante. Noi siamo un paese non meritocratico. Nell’universo aziendale difficilmente c’è meritocrazia. Dateci una buona meritocrazia, un nuovo criterio di valutazione individuale, basato sul merito e le capacità: caratteristiche che vedono le donne vincenti….E ce la faremo da sole.

di Cristina Tirinzoni

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