RELAZIONE MADRE-FIGLIO? INIZIA GIA’ NEL GREMBO MATERNO

La vita psichica nel grembo materno e la relazione madre-feto. Se ne è parlato alla 10a edizione di BergamoScienza,uno dei più importanti e prestigiosi festival di divulgazione scientifica del mondo. Nell’occasione, abbiamo intervistato la dottoressa Bruna Marzi, psicologa e psicoanalista di Bergamo e membro dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, che è stata fra i relatori.

Cosa è stato scoperto di veramente nuovo sulla vita prenatale?
<Si tratta di scoperte emozionanti, che aprono uno sguardo nuovo sui mesi trascorsi nell’utero materno. Grazie anche a una tecnologia biomedica sempre più perfezionata (siamo passati dalle antiche immagini bidimensionali, sempre difficili da comprendere, alle innovative e spettacolari ecografie in 4 D e ultrasuoni), e a una collaborazione interdisciplinare che ha coinvolto campi diversi (neuroscienze, biologia, immunologia, psicologia), si è ottenuta la dimostrazione fisiologica, tangibile e inequivocabile, che il feto è in grado di ricevere uno stimolo (intra ed extrauterino), elaborarlo (anche psicologicamente) e darne una risposta. Il nascituro già apprende fin dalle fasi più remote della gestazione, nutrendosi di tutto ciò che la madre gli offre, a livello chimico-biologico e anche a livello psicoemotivo. Ha una sua precisa individualità biologica, interagisce con livello di competenze psicofisiologiche e neuropsicologiche davvero sorprendenti. Fin dalle prime fasi della gravidanza, memorizza e apprende: odori, suoni, sapori, ed emozioni. Sente la musica e la riconosce dopo la nascita, soprattutto riconosce la voce della madre. Attraverso il liquido amniotico, riconosce anche i sapori e gli aromi caratteristici della dieta materna e queste sensazioni legate al gusto influenzeranno il suo successivo comportamento alimentare. La più recente scoperta riguarda le capacità olfattive fetali. Ciò spiega come i bambini appena nati, percependo un odore simile a quello del liquido amniotico, sono attratti dal latte e dal seno materno. L’attività onirica è già riscontrabile alla 23a settimana, quando si evidenziano chiari segni comportamentali di sonno R.E.M.; sono stati fatti monitoraggi dei sogni materni in gravidanza e si è verificato che, nella fase Rem (quella in cui si sogna), il feto si muove di più; si è addirittura ipotizzato che il feto sogni ciò che sogna la madre. Oggi sappiamo che la comunicazione tra madre e figlio inizia dalle primissime fasi embrionale. Per altro verso, le ultime ricerche in campo neuropsicobiologico sottolineano come alcune sintonizzazioni affettive, dopo la nascita, siano il risultato di scambi comunicativi precedenti. E questa consapevolezza può aiutarci a stabilire con lui un contatto più profondo>.

C’è dunque continuità tra la vita intrauterina, la prima infanzia e la vita adulta?
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La scoperta della neuroscienza conferma quanto già anticipato e intuito dalla pratica clinica della micropsicoanalisi (un metodo di derivazione freudiana che lavora con sedute più lunghe, da due a tre ore e più frequenti, ndr), dove emergono nelle storie degli analizzati esperienze molto precoci che riguardano prevalentemente la vita intrauterina. Già negli anni 70 Nicola Peluffo, allora docente di psicologia sociale all’Università di Torino, e fondatore della micropsicoanalisi, aveva avanzato l’ipotesi che le vicende psichiche che si svolgono in utero lascino tracce nello psichismo del nascituro, influenzandone il destino psicobiologico>.

Quali sono i modi in cui il feto entra in contatto con la madre?
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Il legame madre-bambino scorre su due binari: quello non consapevole, biologico, mediato dagli ormoni, e quello consapevole, culturale, emozionale. Il linguaggio biochimico è molto complesso e affascinante. Gli strumenti della comunicazione sono costituiti dalle innumerevoli proteine elaborate dall’embrione e da proteine e ormoni prodotti dalle cellule materne. Sono le molecole del liquido amniotico che, a partire dalla settima-ottava settimana, stimolano i numerosi recettori della sensorialità chimica e che consente al giovanissimo feto di partecipare agli stati emotivi della madre: gioia, tristezza, piacere, ma anche angoscia, ansia, stress. Ecco perché è importante parlare con il proprio bimbo sin dall’inizio della gravidanza, meglio ancora accarezzandosi dolcemente il ventre. Comunicare con il bimbo in utero si trasforma in un percorso di conoscenza reciproca che promuove il bonding, cioè la formazione di quel legame di attaccamento, unico e personale, tra mamma e bambino. La nascita sarà quindi il ritrovarsi di due individui che già da tempo si cercano, si parlano, si amano>.

In che modo le emozioni materne sono vissute anche dal bambino in utero?
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Il feto riconosce le emozioni che vive la madre, perché le vive anche lui. Alla base di questa comunicazione di emozioni c’è un passaggio, come dicevo, di sostanze chimiche. Gli stati d’animo, le sensazioni, le emozioni, i pensieri e i sentimenti delle mamme sono infatti legati a elementi biologici come ormoni e neurotrasmettitori che viaggiano attraverso il flusso sanguigno e la placenta verso il cervello del nascituro. Le nuove scoperte dimostrano come già dalla 17a settimana, la placenta faccia passare un quantitativo significativo di cortisolo, comunemente definito come “ormone dello stress”, se la madre è rilassata, ciò si esprimerà invece nel rilascio di endorfine, dette “gli ormoni della felicità”. L’attività fisica della madre, i suoi pensieri, le sensazioni che prova e le emozioni che vive si rispecchiano all’interno del suo corpo con sonorità variabili. E modificano le vibrazioni ritmico-sonore in cui è avvolto il bambino con le quali empaticamente entra in risonanza e ne percepisce le variazioni. Il futuro bambino nasce conoscendo già, in modo primario e sensoriale, la sua mamma>.

Ciò significa che il bimbo nel pancione partecipa alla vita della mamma, sente l’ambiente nel quale nascerà. Questa consapevolezza è affascinante, ma può diventare anche fonte di stress. Sono tutte scoperte che possono caricare la mamma di ansia…
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La maternità rappresenta per la donna una fase di profondo cambiamento. Una trasformazione naturale, carica di ansie, aspettative, desideri, emozioni, paure e fantasie. Le future madri si costruiscono scenari immaginari, cercano di indovinare come sarà il bebé, secondo le proprie speranze, i propri timori e la propria storia personale. L’immaginazione lavora al massimo. Durante la gravidanza, soprattutto nei primi mesi, il timore è di aver concepito un bambino portatore di una malformazione fisica; la vita onirica è spesso ricca di immagini mostruose, di personaggi o insetti che invadono. Negli ultimi mesi, quando la presenza del feto diventa “ingombrante”, i pensieri consci riguardano la paura del parto, la minaccia dell’incolumità fisica. Ho fatto questa premessa per sottolineare come, ancor prima del concepimento e durante tutta la gestazione, la relazione madre-bambino sia caratterizzata da sentimenti di ambivalenza. Anche quando un figlio è fortemente desiderato, il processo che porta a diventare madri è accompagnato da sentimenti contrastanti, e persino pensieri di rifiuto della gravidanza, nonostante in termini coscienziali la si sia accettata e la si voglia portare a compimento. Ambivalenza che spesso, ancora prima della conoscenza razionale, si esprime in modo fisico, attraverso il sintomo della nausea. E’ spesso un’esperienza vissuta in solitudine. Eroicamente la donna porta avanti la gravidanza, che pure desidera, vivendo un conflitto spesso inconscio tra desiderio e rifiuto della maternità, con grandi sensi di colpa perché sono incompatibili col mito della madre che deve essere per forza felice di esserlo. Tale ambivalenza, se non viene compresa, elaborata, può essere concausa di gravidanze sofferte e di molti disturbi per il feto>.

Il suggerimento?
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Il miglior consiglio che uno psicologo può dare è: parlare. E’ davvero importante riconoscere ed esprimere ciò che si sperimenta sul piano fisico ed emotivo durante la gravidanza. Poter esprimere le proprie emozioni e, soprattutto le proprie fantasie. Parlare delle proprie difficoltà, desideri, paure. Parlare magari anche con un esperto che sia in grado di contenere le paure, fino a comprendere che la sua aggressività interna verso il nascituro che ha in grembo è normale. Riconoscere le proprie emozioni è molto importante, accettarle lo è ancora di più. Da quel momento è possibile gestirle>.

BOX
Feto, ecco chi lo protegge dal “rigetto”

Anni di studi e ricerche hanno in parte chiarito uno dei grandi misteri della biologia riproduttiva. Quello del perché la donna in gravidanza non “rigetta” il feto, fin dai primi tentativi di annidamento, contravvenendo alle regole del sistema immunitario che respinge ogni sostanza non compatibile (il feto ereditando metà dei geni dal padre è dal punto di vista genetico un corpo estraneo per l’organismo materno). Un recente studio condotto da un team di ricercatori della NYU School of Medicine negli Stati Uniti avrebbe scoperto che l’impianto dell’embrione, con un meccanismo complesso, disattiva la produzione di chemochine, molecole deputate a richiamare ai posti di combattimento le cellule immuno-competenti, T regolatorie (Treg) e i linfociti natural killer (NK), i quali di conseguenza non riescono ad accumularsi intorno al feto. Esiste inoltre un tessuto specializzato della parete uterina che si forma come scudo all’impianto da parte dell’embrione. È la decidua, che sarebbe in grado di secernere anche molecole immunosoppressive . Da cui ha origine la placenta. Suggestiva, l’ipotesi avanzata dalla micropsicoanalisi, che ha dedicato una particolare attenzione alla fase iniziatica intrauterina: semplificando, sin dai primissimi giorni di fecondazione dell’ovulo l’organismo materno vive una guerra psicobiologica, caratterizzata da dinamiche di trattenimento-espulsione. E l’unità feto-placentare percepisce questa minaccia potenzialmente mortale. E’ questo un primitivo nucleo di sensazioni protomentali di disagio, dolore, angoscia, di un’esperienza d’invasione e di annientamento reciproco, che lasceranno la loro impronta nella futura strutturazione dell’apparato psichico e condizioneranno lo psichismo dell’adulto (che in base al grado di intensità può assumere caratteristiche patologiche).

Ad avanzare quest’ipotesi, già negli anni 70 (e allora fece molto scalpore sollevando ondate di critiche, ma che oggi trova sostegno nella biologia evoluzionista), è stato Nicola Peluffo, fondatore della micropsicoanalisi. Perché allora non avviene il rigetto? Secondo Peluffo, lo psichico e il biologico sono in interazione permanente, accumulando e trasferendo dall’uno all’altro polo informazioni ed energia. Il rigetto dunque non avverrebbe perché, durante l’invasione batterica dell’antigene-embrione, si verifica uno spostamento della risposta somatica materna di rigetto dal piano fisico a quello dell’elaborazione psichica, contraddistinta dallo strutturarsi di fantasmi, di invasione o di fagocitamento, e di aggressione, annichilimento reciproco. Sono fantasie tutt’altro che rare che emergono nel corso delle lunghe sedute di micropsicanalisi, una tecnica molto potente che permette l’esplorazione in profondità di un trauma avvenuto in utero e lo rende, progressivamente, inerte. http://www.josephcusimano.com/

di Cristina Tirinzoni

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