Non assistenzialismo, ma integrazione per le donne immigrate

Alcune di loro sono arrivate per mare o attraverso i corridoi umanitari. Quasi sempre sono donne sole, senza marito, e con figli, anche piccolissimi. Lasciano situazioni disperate nei loro Paesi d’origine, soprattutto Siria, Iraq, Libano, Sudan, Somalia, Eritrea, e scappano dalla guerra e dalla fame, affrontando viaggi della speranza dove i pericoli di morire o di essere vittime di violenza fanno parte del quotidiano. Ma hanno tanto coraggio e determinazione, soprattutto per dare un futuro ai propri figli. Chiedono protezione internazionale e sono pronte a impegnarsi per costruirsi una vita, una famiglia, un’autonomia. È a loro che si rivolge il progetto della Comunità di Sant’Egidio “Madri e Figli rifugiati: dall’accoglienza all’inclusione” che, dopo una prima fase pilota con 50 donne, si estenderà da luglio e per quattro anni a 400 donne richiedenti protezione internazionale e ai loro figli minorenni. Un progetto reso possibile grazie al contributo liberale di MSD Italia.
Ne parliamo con Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati.

Si tratta di un progetto importante che vuole essere un passo avanti, affinché l’accoglienza non si limiti all’assistenzialismo, ma diventi “integrazione”. Ci può spiegare concretamente in che cosa consiste?
«Il nostro proposito è di aiutare 400 donne, in 400 modi differenti, nel giro di 4 anni, con uno stanziamento di circa 100mila euro all’anno. Ogni donna ha una sua storia, con esigenze personali. Ma tutte hanno un filo conduttore che le unisce: la consapevolezza che se vogliono davvero un futuro per sé e per i propri figli devono rendersi autonome, integrarsi, lavorare. E il primo passo è andare a scuola, per imparare la lingua. È dal 1982 che la Comunità di Sant’Egidio tiene corsi di Lingua e Cultura italiana, dal livello di prima alfabetizzazione a quello di madrelingua. Se non si impara la lingua del Paese dove si vive, non ci potrà mai essere vera integrazione. Ma da sola la lingua non basta. Ci sono donne che hanno bisogno di essere assistite dal punto di vista legale, perché richiedere la protezione internazionale prevede complessi iter burocratici. Altre necessitano kit di sussistenza per i piccoli, dal latte ai pannolini e, grazie a questo progetto, ne potremmo aiutare sempre di più. E poi ci sono i bambini da inserire nelle scuole, altri ai quali pagare la retta della mensa. Per non parlare dei piccoli gesti quotidiani per consentire a queste donne di vivere: dalle tessere telefoniche, per mettersi in contatto con le famiglie nei paesi d’origine, alle tessere dell’autobus per spostarsi in città, all’accesso alle cure mediche».

Tra le tante discriminanti che i migranti devono subire, c’è anche quella di essere considerati  “portatori di malattie”. Eppure i dati parlano chiaro: non c’è una correlazione tra immigrazione e aumento di malattie infettive. La tutela della salute è un altro punto che vi proponete di salvaguardare, sia per le donne che per i loro bambini?
«Ancora una volta dobbiamo partire dall’istruzione, anche per la tutela della salute. Non è un caso che a scuola teniamo “lezioni di prevenzione delle malattie”. Abbiamo siglato un protocollo d’intesa con l’ASL Roma 1 e con l’Ospedale Santo Spirito, in modo che i migranti – uomini e donne – possano fare screening di prevenzione dei tumori. Quando si parla di salute delle donne immigrate spesso ci si limita ai dati sulle interruzioni volontarie di gravidanze, dimenticando che l’incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e di tumori femminili è alta e c’è ancora molto da fare. L’accesso alle cure, alla prevenzione, alla diagnosi precoce nel nostro Paese è all’avanguardia perché il Servizio Sanitario Nazionale garantisce il diritto alle cure a tutti, anche agli immigrati, così si tutela la salute dell’intera collettività. Ma le donne hanno paura: per retaggi culturali non osano farsi visitare dai medici. A volte basta mettere loro a disposizione una ginecologa donna per poter abbattere questi muri. E poi occorre pensare ai bambini che spesso non sono vaccinati o hanno dovuto interrompere il calendario vaccinale: dobbiamo tutelarli per evitare che si ammalino una volta arrivati nel nostro Paese e favorirne l’inserimento nelle scuole. E questo diventa un insegnamento di integrazione fondamentale anche per i nostri bambini che imparano così a conoscere e convivere con culture diverse».

Un passo fondamentale per l’integrazione è certamente la formazione lavorativa e l’autonomia abitativa. Quali aiuti vi proponete di dare a queste donne?
«Noi cerchiamo di fare il possibile affinché possano essere autonome. Per questo teniamo corsi di economia domestica e di assistenza agli anziani in modo che possano trovarsi un lavoro in famiglia, per assistere anziani, bambini o disabili e farlo in modo professionale. In molti casi – e sarà tra le priorità di questo progetto – paghiamo loro dei tirocini formativi in modo che ci siano più prospettive di lavoro. E spesso si tratta per loro della prima esperienza lavorativa. In particolare lo facciamo con le donne nigeriane, che più di altre rischiano di finire vittime della tratta e dello sfruttamento della prostituzione. Stiamo anche cercando appartamenti a un costo sostenibile per poterle ospitare. Con questo progetto noi vorremmo offrire anche un “contributo per l’affitto” per un periodo limitato di tempo, così da aiutare le donne ad acquistare autonomia e poter mettere i soldi da parte, per poi proseguire da sole e prendersi carico della famiglia. La donna quasi sempre si comporta da caregiver e assiste, col suo lavoro, l’intera famiglia. C’è infatti nelle donne una componente imprenditoriale che non deve essere sottovalutata».

Tra le tante iniziative messe a punto dalla Comunità di Sant’Egidio, c’è il Centro che sarà realizzato all’interno della struttura del San Gallicano, a Trastevere nel centro di Roma.
«Sarà un luogo di incontro, di assistenza, di accoglienza. Ma sarà soprattutto un luogo di “vita”,  di quotidianità. Ci si potrà fare una doccia, o trovare un parrucchiere per tagliarsi i capelli. Sarà un luogo di aggregazione dove sentirsi meno soli. In sintesi un luogo dove si potrà ritrovare la dignità delle persone proprio attraverso i gesti più semplici ma affatto scontati».

Tra le tante donne che in tutti questi anni ha aiutato e tante ne aiuterà con questo progetto, c’è una storia che più di altre le è rimasta impressa nel cuore?
«Anche se gli esempi sono molteplici, vorrei citare in particolare una donna che mi ha insegnato tanto. Rasha è siro-palestinese e questo fa di lei una povera tra i poveri, un’emarginata tra gli emarginati. E’ arrivata in Italia con il corridoio umanitario assieme ai suoi tre figli. Viveva a Damasco, in un campo profughi preso sotto assedio. Un giorno ha perso il marito e per colpa dello scoppio di una bomba è diventata cieca. Quando l’ordigno è esploso aveva in braccio il suo secondo figlio. Quando è arrivata in Italia non sembrava cieca. Era fiera, coraggiosa, autonoma. Suo figlio per il trauma subìto, non parlava, non interagiva. Pensavamo fosse autistico. Ma Rasha non si è mai arresa: si è fatta aiutare, si è messa in gioco e ha fatto sì che aiutassimo i suoi figli. Oggi quel bambino si è aperto al mondo, va a scuola e ha ripreso a vivere. Noi stiamo aiutando Rasha a fare le pratiche per l’invalidità e grazie a questo progetto speriamo presto di poterle trovare una casa. Rasha mi ha insegnato il coraggio di una lottatrice per sé e per i suoi figli».

Questo vostro progetto è focalizzato sulle donne. Perché avete voluto concentrare gli sforzi su questa categoria che spesso è considerata “minore”, se non addirittura “inferiore” nei Paesi da cui provengono. Qual è il valore aggiunto delle donne?
«La serietà, l’impegno. La volontà di andare fino in fondo a dispetto delle difficoltà della vita. E se sono madri niente le può fermare. Sanno che il loro futuro e quello dei loro figli è tutto nelle loro mani e nei loro cuori. Hanno il coraggio negli occhi e il futuro nelle mani. E poi sono le care-giver dell’intera famiglia: educare loro, vuol dire migliorare tutto il nucleo familiare. Ma non solo: le donne sono in grado di insegnare ad altre donne, pur di diversa nazionalità, un mestiere. Per questo abbiamo organizzato corsi di educazione domestica che, spesso vengono gestiti da donne immigrate, arrivate magari mesi prima e che ora insegnano alle new-entry. Nella convinzione che chi ha sofferto e lottato per l’integrazione può essere d’esempio alle altre. E può infondere quel coraggio e quella forza di volontà che sono indispensabili per un’integrazione completa, tanto che alla fine non ci si accorge più della differenza tra chi accoglie e chi viene accolto, in una comunità di intenti che va al di là delle razze e delle differenti culture».

di Paola Trombetta

 

Articoli correlati