Salute mentale: aumenta tra gli adolescenti il disagio psico-emotivo

Fragili, insicuri, ma al contempo consapevoli del proprio disagio. Gli adolescenti e i ragazzi tra 13 e 19 anni, si “confessano” in una indagine sociologica nazionale dal titolo: “Adolescenza, tra speranze e timori”, realizzata da Laboratorio Adolescenza insieme a Istituto IARD e a Lundbeck Italia, e svelano i loro stati d’animo, le paure e quanto può minare il loro benessere psico-fisico, compromettendo così la salute mentale. Se per alcuni aspetti già attestava qualche criticità, la pandemia ne ha acuito la portata, in termine di severità e di maggior numero di ragazzi interessati dalla problematica o più a rischio. Il quadro che emerge dall’indagine, presentata in occasione del World Mental Health Day (10 ottobre), quest’anno incentrato sul tema: “Rendere la salute mentale e il benessere di tutti una priorità globale”, è poco rassicurante e rivela un mondo sommerso fatto di turbamenti, di timori: un’invocazione di aiuto, rivolta in maniera più o meno trasparente, dai ragazzi agli esperti e al mondo degli adulti.

L’indagine, condotta tra marzo e maggio 2022 su un campione nazionale di oltre 5.700 studenti, era mirata a comprendere l’impatto emotivo della pandemia sullo stile di vita dei giovani, in relazione ad alcuni aspetti: la comparsa di tristezza, ansia, variabilità d’umore, l’influenza tra i ragazzi con esperienze di autolesionismo, consumo di sostanze e abuso di alcol, la percezione degli adolescenti nei confronti di problemi psicologici-psichiatrici. Non serve un “occhio clinico” per stimare il peso dei dati: oltre il 40% dei giovani intervistati ha affermato di sentirsi, spesso o qualche volta, particolarmente ansioso o impaurito, anche senza una ragione apparente: una sensazione che può attanagliare fino a togliere il respiro, da quanto dichiarano i ragazzi. Disagi che nell’80% dei casi si manifestano aggravati e aumentati negli ultimi due anni (57%), complice la pandemia.

C’entra l’influenza delle compagnie? Se non del tutto, ha il suo ruolo: gran parte degli adolescenti non sono estranei a situazioni conclamate di disagio, il 40% conosce un coetaneo che pratica autolesionismo, più diffuso tra le ragazze, come atto estremo per affrontare situazioni di agitazione, tristezza e tensione: fenomeno che non può non avere ripercussioni sul tessuto sociale. Dall’altro però i giovani sono più accorti, consapevoli, attenti: percepiscono i disagi psicologici e psichici come un evento possibile a qualunque età, e in qualunque persona, non sono i più fragili, riconoscendo la necessità di un aiuto esterno e specialistico per il superamento del problema: un primo passo, importante, per abbattere lo stigma del disagio mentale, ancora preponderante. Ed è positivo che il messaggio arrivi dal 58% dei giovani, che rappresentano il futuro: preoccupa però il contesto, ovvero le cause attribuite dai giovani al loro disagio psico-emotivo: la pandemia (88%), le liti familiari (87%) e la scuola (84%).

«Gli esiti dell’indagine – afferma Maurizio Tucci, Presidente Laboratorio Adolescenza – attestano un aumento, rispetto al passato, dei disagi come ansia e tristezza tra gli adolescenti e una frequenza che va ben oltre la normale presenza in un’età comunque complessa». In media 1 giovane su 4 (25%) e 1 su 5 (20%), a livello globale, sta sperimentando rispettivamente sintomi depressivi e ansia. In Italia, durante la pandemia, il 16% dei pazienti psichiatrici ha tentato il suicidio, mentre l’ideazione suicidaria e l’autolesionismo sono state le ragioni di ricovero nel 31% dei pazienti, con un’incidenza più elevata ancora una volta tra le ragazze. «Seppure sia ipotizzabile che nella maggioranza dei casi queste forme di disagio siano destinate a rientrare senza importanti conseguenze – prosegue Tucci – è opportuno non minimizzare a priori queste manifestazioni: genitori, pediatri e insegnanti dovrebbero essere attente sentinelle per cogliere prima possibile eventuali segnali di disagio, così da intervenire presto e adeguatamente, indirizzando i giovani da uno specialista, con la consapevolezza che sono spesso bravissimi a dissimularli».

Come si spiega questo atteggiamento? «L’adolescenza è una fase della vita in cui i ragazzi potrebbero non sentirsi liberi di esprimere il proprio disagio per paura del pregiudizio dei coetanei – chiarisce Stefano Vicari, Professore Ordinario di Neuropsichiatria Infantile, Università Cattolica, Roma e Responsabile Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù – o di non essere compresi dagli adulti. I genitori e tutte le figure referenziali per gli adolescente dovrebbero sviluppare una capacità di ascolto e di comprensione, mentre ad oggi in Italia manca una vera cultura sulla Salute Mentale: bisogna dare tempo alle famiglie di occuparsi dei figli, mettere i ragazzi al centro delle nostre agende e gli insegnanti devono poter avere gli strumenti per essere di supporto».

Fondamentale è anche il ruolo dei governi e di tutte le parti istituzionali coinvolte, chiamate a stimolare e favorire l’applicazione di misure sociali che consentano di abbattere lo stigma e la discriminazione, ancora oggi un limite all’inclusione sociale e all’accesso alle giuste cure per molte persone con disturbi mentali, con ripercussioni sensibili sulla qualità della vita di chi ne soffre, dei loro cari e sul contesto ambientale.

«È fondamentale – prosegue Sergio De Filippis, Direttore Sanitario e Scientifico Clinica neuropsichiatrica Villa Von Siebenthal, Docente Psichiatria delle Dipendenzeche si agisca su più livelli per garantire che il benessere mentale sia sempre una priorità dei governi e della società in generale».

«Occorre costruire una cultura del disagio mentale – conclude Ughetta Radice Fossati, Segretario Generale Fondazione Progetto Itaca – diffusa in tutto il tessuto sociale, affinché questi disturbi possano essere precocemente riconosciuti e affrontati: l’unico modo per arrivare all’obiettivo è lavorare insieme, stabilire nuove sinergie tra istituzioni, associazioni, aziende e privati, creare un nuovo patto di alleanza per dare scacco alla malattia, andando oltre la medicina e supportando le necessità che la persona con disagio psichico e la comunità richiedono».

di Francesca Morelli

Long-covid: sintomi a 12 mesi di distanza

Tutti i sintomi dell’infezione da Coronavirus sviluppati in fase acuta, come disturbi neurologici, respiratori, gastrointestinali, reumatologici, diminuiscono fino a scomparire, a un anno dal contagio. Quelli psichiatrici/psicoemotivi, soprattutto ansia e depressione, invece no. Anzi possono subire anche un sensibile aumento, pari al 10%, accompagnati da mancanza di concentrazione e attenzione che possono aggravarsi addirittura del 20%. Lo ha dimostrato uno studio dell’Ospedale universitario di Udine che ha monitorato la salute mentale di 479 pazienti (ricoverati e ambulatoriali), di cui oltre il 52% donne, dall’esordio di Covid-19 e per un anno intero, con l’obiettivo di comprendere le cause e la durata del disagio. È stato così possibile osservare che in circa il 47% dei pazienti i sintomi psichici persistevano a distanza di 12 mesi. Ma non solo, chi presentava al follow-up sintomi neurologici, reumatologici e gastrointestinali, aveva maggiori probabilità di soffrire anche di disturbi psichiatrici un anno dopo l’infezione. Dati che sono interessanti e preoccupanti.
«Lo studio – spiega Claudio Mencacci, direttore emerito di Psichiatria all’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano e co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (SINPF) – ci fornisce informazioni importanti: i sintomi psichiatrici più frequenti, cioè depressione, ansia e insonnia, i cosiddetti disturbi mentali comuni (CMD) con una prevalenza globale stimata tra il 25,9% e il 32,6%, rappresentano una perdita di salute considerevole nell’arco della vita. I “sopravvissuti” al Covid-19 possono presentare disturbi cognitivi duraturi, probabilmente dovuti all’esperienza di una malattia più grave e una fragilità cognitiva preesistente. Inoltre chi ha avuto l’infezione da Coronavirus sperimenta una scarsa qualità del sonno e un disagio psichiatrico sotto forma di sintomi somatici persistenti, con implicazioni per la salute pubblica in termini di peggioramento della qualità della vita».
Le considerazioni emerse sono ulteriormente critiche se si considera l’attuale momento storico, fra i più difficili per la psichiatria italiana, alle prese con un “cedimento strutturale” di molte delle articolazioni territoriali e ospedaliere di salute mentale: un calo dei dipartimenti di salute mentale, scesi da 183 a 141, una drammatica fuga del personale medico (si stima che nel 2025 mancheranno mille psichiatri e novemila professionisti sanitari) e disponibilità di risorse un terzo inferiori rispetto a quelle degli altri principali paesi europei (3% invece del 10). «La psichiatria – aggiunge Matteo Balestrieri, professore di Psichiatria presso l’università di Udine e direttore della Clinica psichiatrica dell’azienda ospedaliero-universitaria della città e co-presidente nazionale della SINPF – è stata completamente dimenticata dal PNRR. Anche la conferenza Stato-Regioni ha fissato al 5% la quota destinata alla salute mentale del fondo sanitario nazionale che per il 2022 è di 122 miliardi di euro, ma in realtà la media di stanziamento effettivo delle Regioni è di circa il 3%, ben lontano dall’obiettivo del 10% indicato in sede comunitaria per i Paesi ad alto reddito. Una situazione che speriamo venga “sanata” dal prossimo governo con l’istituzione di un’ Agenzia Nazionale per la salute mentale che possa rivedere tutto il settore a 360 gradi». F.M.

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