HIV: le domande dei pazienti, le risposte dei clinici

«Scopro di avere l’AIDS conclamato 24 anni fa, all’età di 35 anni. Una diagnosi tardiva perché nessuno pensava che potessi avere questa infezione. All’epoca gestivo un ristorante di qualità e non appartenevo ad una presunta “categoria a rischio”. Ero separata da tre anni… All’inizio mi è stata riscontrata una pneumocistosi, un’infezione polmonare grave che mi ha portato in tre giorni al coma, da cui mi sono risvegliata dopo 50 giorni, con un’aspettativa di sei mesi di vita. Il professor Moroni dell’Ospedale Sacco, da cui ero andata a fare una visita, mi aveva invece incoraggiato e ha confermato che potevo iniziare la terapia antiretrovirale. Questa malattia all’inizio mi ha devastato la vita: ho perso l’attività, gli amici, i parenti: ho avuto praticamente il vuoto intorno a me! Dopo tre mesi ho iniziato la cura, con 21 farmaci al giorno… Il primo anno di malattia è stato il più brutto della mia vita. L’anno dopo invece ho conosciuto l’Associazione LILA e sono entrata a far parte della loro sede di Como, dove abitavo. È iniziato così il mio percorso di “accettazione” dell’HIV che mi ha cambiato la vita. Ho perso tutto, ma poi ho riguadagnato tantissimo. Parlo sempre della mia prima e seconda vita e mi ritengo una persona “privilegiata”. Festeggio due compleanni: il mio di nascita e il 16 marzo 1999 che è l’anno in cui ho scoperto di avere l’AIDS. Grazie alle terapie, la malattia è regredita e ora sono in una fase di totale remissione dell’infezione da HIV, non più trasmissibile da ben 15 anni, con una situazione clinica ottimale. Non ho avuto particolari problemi di salute, a parte un carcinoma al naso che è mi stato asportato cinque anni fa, ma non è in alcun modo legato all’HIV. Ho solo un problema di colesterolo alto e per questo sono in cura. Oggi prendo una sola pastiglia per controllare l’infezione da HIV. Mi ritengo davvero fortunata per aver superato in modo ottimale la fase dell’AIDS. Dopo la separazione, mi sono risposata e non mi sono preclusa nulla nella vita. Non ho avuto figli, perché all’epoca la priorità era quella di sopravvivere alla malattia. Mi sono impegnata nell’Associazione LILA, per contribuire ad aiutare le persone che stanno vivendo la mia stessa condizione. A differenza di vent’anni fa, oggi si può scegliere di avere figli, si può addirittura partorire in modo naturale, avere una vita affettiva, intima e sessuale normale. Purtroppo ancora oggi l’HIV rischia di condizionare le persone. Accettare l’aiuto di chi ha affrontato questo percorso di cura è importante perché migliora la nostra esistenza e ci permette di vivere senza o di gestire lo stigma: ci fa raggiungere un equilibrio che è la condizione fondamentale per non essere sopraffatti dall’HIV».
Così Giusy Giupponi, presidente dell’Associazione LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS), racconta la sua storia di HIV e AIDS vissuta con assoluta consapevolezza e responsabilità, in occasione della Giornata mondiale contro l’AIDS (1°dicembre).

Il 40% delle persone che vive con HIV apprende dell’infezione casualmente e ben 2 su 10 rimandano la comunicazione, principalmente per la paura del giudizio e dell’emarginazione. Parlare di HIV è allora il primo passo per abbattere stigma e pregiudizio, aiutare le persone a vivere meglio e con maggiore serenità. La grande maggioranza delle persone con HIV dichiara infatti che l’infezione può avere forti ripercussioni a livello psicologico, soprattutto a causa di discriminazioni e difficoltà di convivenza con l’infezione. La salute mentale è un punto di forte attenzione: numerose le persone con HIV a rischio di depressione. A pesare sulla qualità di vita, anche, la mancata aderenza alle terapie che interessa oltre un terzo dei pazienti e che potrebbe invece contribuire a migliorarla sensibilmente. Sono alcuni dati emersi dall’indagine realizzata da Elma Research su 500 pazienti, da cui si evidenzia una fotografia del vissuto delle persone con HIV e dei loro bisogni che mette in luce come l’infezione, nonostante i progressi terapeutici, abbia ancora un impatto determinante su diversi aspetti della qualità di vita.

A partire dai risultati emersi dalla ricerca, è nata “HIV. Ne parliamo?”, la campagna di sensibilizzazione promossa da Gilead Sciences con il patrocinio di 16 Associazioni di pazienti italiane, della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e dell’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research (ICAR). Attraverso la voce di chi vive con l’HIV, la campagna pone l’attenzione sugli aspetti di vita che possono essere migliorati, per prenderne consapevolezza e iniziare ad affrontarli. A partire da una semplice domanda da fare al proprio medico: ne parliamo? Dagli aspetti psicologici alle relazioni con gli altri, dal dialogo con il medico alla corretta assunzione della terapia, questa campagna vuole offrire, attraverso le storie di chi vive con HIV, degli spunti di riflessione sulla propria condizione e informazioni utili per migliorarla. Tutto disponibile su www.hivneparliamo.it.

«Considerando che il 95% delle persone comunica l’infezione, ma lo fa in modo molto parziale, spesso escludendo familiari e amici, è evidente che sussiste ancora una forte componente di stigma che pesa sulla vita di chi scopre la sieropositività al virus, con un carico che impatta negativamente sulla qualità di vita e sul benessere psicologico», sottolinea Gabriella D’Ettorre, del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma. «Un dialogo aperto con il proprio medico, ma anche il supporto delle Associazioni di pazienti, rappresentano punti cruciali per affrontare e risolvere queste problematiche, affinché chi scopre l’infezione non si senta “messo da parte”, né si autoescluda sul piano affettivo, sociale o relazionale. Tornare a parlarne, inoltre, è importante per promuovere l’accesso al test volontario, soprattutto in chi ha comportamenti a rischio, in modo da favorire la diagnosi precoce dell’infezione».

Secondo gli ultimi dati pubblicati dal COA, invece, in quasi il 60% dei casi l’infezione viene scoperta in fase avanzata, cosa che può compromettere l’efficacia delle terapie che, se assunte precocemente, consentono una buona qualità di vita.

«Il contrasto all’HIV può infatti contare su strategie terapeutiche efficaci, in grado di azzerare la carica virale, soprattutto se assunte il più precocemente possibile rispetto al momento dell’infezione», puntualizza Andrea Gori, del Dipartimento di Malattie Infettive, Ospedale “Luigi Sacco”, Università di Milano e presidente Anlaids Lombardia. «L’aderenza alla terapia resta però il punto chiave, sebbene circa il 30% dei pazienti non riesca a rispettarla. Essere aderenti alla terapia vuol dire diminuire la probabilità di comparsa di mutazioni del virus che possono provocare “resistenze ai farmaci anti-HIV”, ossia una ridotta o assente efficacia della terapia stessa. Chi segue le indicazioni terapeutiche protegge anche gli altri, poiché azzerando la replicazione del virus non trasmette l’infezione, non è più contagioso. Un concetto rivoluzionario che si traduce in U=U (Undetectable꞊Untransmittable) ovvero “mi curo, non infetto”».

È per questo che il dialogo con lo specialista è fondamentale per favorire la consapevolezza di come l’aderenza alla terapia possa migliorare sostanzialmente la qualità di vita, anche in termini di disturbi di natura psicologica.

«Quello della salute mentale e del benessere psicologico più in generale è un aspetto molto importante a cui non sempre viene data la giusta attenzione», spiega Alessandro Lazzaro, del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma. «Numerose sono le persone con HIV a rischio di depressione o che presentano disturbi come insonnia e ansia che possono avere un impatto importante sulla qualità di vita. Le cause possono essere diverse: lo stigma sociale, ancora fortemente presente, è una delle principali. Ma dietro alcuni disturbi può esserci una causa biologica, legata agli effetti del virus o della stessa terapia antiretrovirale. In tale contesto, il dialogo medico-paziente ha un ruolo cruciale per prendere consapevolezza e affrontare queste problematiche, non solo dal punto di vista delle scelte terapeutiche, ma anche per indirizzare verso un percorso integrato di tipo multidisciplinare».

Una corretta e diffusa informazione, con la possibilità concreta di controllare l’infezione e impedire la replicazione del virus, promuove l’abbattimento dello stigma che ancora circonda le persone con HIV. Per questo, “HIV. Ne parliamo?” non si rivolge solo alle persone che vivono con HIV, ma intende alimentare il dialogo e rispondere a dubbi e domande della popolazione generale. Un obiettivo che verrà raggiunto grazie a una serie di influencer che coinvolgeranno le loro community sensibilizzandole sull’importanza di parlare di HIV. Perché parlandone è possibile abbattere le barriere del pregiudizio, dettate dalla non conoscenza e dalla non comprensione. I profili Instagram degli influencer saranno popolati dalle card con messaggi che lanciano una challenge molto semplice: ne parliamo?

di Paola Trombetta

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