Cannabis e sanità: ripartire dalla scienza

È stato bloccato i giorni scorsi dal Ministero della Salute il decreto, emesso nel mese di agosto, che equiparava i farmaci a base di cannabis a sostanze stupefacenti. In attesa di una revisione di questo decreto, prevista a gennaio, cerchiamo di fare chiarezza su questo argomento tanto dibattuto. Che cos’è la cannabis e quali le sue proprietà? Quali differenze esistono tra i prodotti a base di cannabis di libera vendita e i farmaci veri e propri? Per quali patologie vengono utilizzati i farmaci a base di cannabidiolo, il più importante principio attivo?
A queste domande hanno risposto autorevoli esperti intervenuti al convegno: “Cannabis e Sanità. Ripartire dalla Scienza”, promosso da AdnKronos Comunicazione a Palazzo delle Stelline di Milano, con il supporto di Jazz Pharmaceuticals, dove sono intervenuti il Professor Giorgio Racagni, Past President SIF – Società Italiana Farmacologia, il Professor Emilio Russo, Ordinario di Farmacologia presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro, il Professor Marco Pistis, Ordinario di Farmacologia presso l’Università degli Studi di Cagliari, la Dottoressa Laura Tassi, Presidente LICE – Lega Italiana Contro l’Epilessia e la Professoressa Marcella Marletta, già Direttore Generale della Direzione dei farmaci, del Ministero della Salute.
Una premessa è d’obbligo: la cannabis è una pianta, conosciuta fin dall’antichità, di cui la scienza moderna comincia a interessarsi nel 1990, grazie ad alcuni ricercatori del National Institute of Mental Health. Contiene diversi principi attivi, con interessanti potenzialità, che la comunità scientifica sta imparando a conoscere e utilizzare sempre più. Per questo è fondamentale approfondire le differenze tra i diversi impieghi, per evitare che si diffondano informazioni sbagliate, che possano aumentare il rischio di un uso non appropriato e, quindi, dannoso. Chiarezza, Differenziazione, Appropriatezza: sono le tre parole “chiave” attorno alle quali si è articolato l’incontro: con l’obiettivo di fare luce su un tema che registra un interesse crescente, ma che, a volte, si scontra con l’utilizzo di una terminologia non sempre appropriata. Innanzitutto, è importante operare qualche distinzione: ci sono farmaci a base di cannabis approvati dalle Autorità Regolatorie, prodotti a base di cannabis non approvati dalle Autorità Regolatorie e prodotti di consumo contenenti CBD (cannabidiolo). Si tratta di tre categorie ben distinte, utilizzate per scopi differenti.
Partendo dalla parola “chiarezza”, il Professor Racagni ha spiegato cos’è la cannabis da un punto di vista farmacologico. «È una pianta che contiene prevalentemente due principi attivi, il cannabidiolo (CBD) e il tetraidrocannabinolo (THC), quest’ultimo in grado di interagire con il sistema endocannabinoide del nostro organismo. Questo contribuisce all’omeostasi, ossia alla stabilità dell’ambiente interno del corpo, e si attiva per riportare l’equilibrio, evitando una “disregolazione” che può causare eventi patologici. I cannabinoidi endogeni si legano a due tipi di recettori: i CB1, che si trovano prevalentemente nel sistema nervoso centrale, per modulare neurotrasmettitori come la serotonina, le dopamine e i CB2, che si trovano invece a livello periferico, in particolare, nelle cellule immunitarie. Il sistema endocannabinoide si attiva anche in presenza di cannabinoidi non endogeni, ovvero alcuni principi attivi della cannabis, come Il THC che va ad agire sul recettore CB1, come antiemetico, antinfiammatorio e analgesico, così come l’azione stimolante ed euforizzante. Il cannabidiolo (CBD), al contrario, non ha effetto euforizzante: svolge invece un’azione antiepilettica con meccanismi diversi non ancora del tutto noti, bloccando dei recettori coinvolti in questa malattia».
Passando alla seconda parola, “differenziazione”, è opportuno distinguere tre principali categorie. Alla prima appartengono i farmaci a base di cannabis approvati dalle Autorità Regolatorie, sottoposti a programmi rigorosi di sperimentazioni cliniche, come qualunque altro farmaco. Alla seconda appartengono i prodotti a base di cannabis non approvati dalle Autorità Regolatorie, utilizzati a scopo terapeutico su prescrizione medica, spesso indicati con il nome di cannabis “medica” o “terapeutica”, impiegati principalmente nel dolore cronico e quello associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale. In Italia, la cannabis per uso terapeutico può essere prescritta dal medico su ricetta non ripetibile. La mancanza di sufficienti evidenze scientifiche a sostegno del loro utilizzo nelle patologie per cui sono prescritti, differenzia questi prodotti dai farmaci. Per questo il Ministero della Salute non considera tali prodotti come una terapia, bensì come un trattamento sintomatico di supporto alle cure standard, quando questi ultimi non hanno prodotto gli effetti desiderati, o hanno provocato effetti secondari non tollerabili. Infine, esistono i prodotti di consumo contenenti cannabidiolo, venduti direttamente al pubblico in negozi specializzati o online, che includono oli e altri prodotti a base di cannabidiolo, dispositivi per il vaping e ingredienti per cosmetici. Questi prodotti non rientrano nelle due categorie precedenti e non sono autorizzati per finalità mediche.
Terza e ultima parola chiave del dibattito: “appropriatezza”: un tema fondamentale sul quale tutti i relatori si sono espressi, anche in base alle differenti categorie di prodotti derivati dalla cannabis. «Quando parliamo di appropriatezza prescrittiva generalmente ci riferiamo ai farmaci», dichiara il Professor Marco Pistis, dell’Università di Cagliari. «Tra questi rientrano ovviamente anche quelli derivati dalla cannabis approvati dalle Autorità Regolatorie, che possono avere, come tutti i farmaci, effetti collaterali o interazioni farmacologiche. Ma si tratta di interazioni ben note, osservate durante gli studi registrativi. Sono monitorati anche dal sistema di farmacovigilanza, per cui si possono apportare modifiche alle schede tecniche e inserire ulteriori informazioni, limitazioni, controindicazioni».
«Normalmente i farmaci vengono autorizzati e introdotti nella pratica clinica perché si conosce il rapporto rischio/beneficio», aggiunge il Professor Emilio Russo, dell’Università di Catanzaro. «Utilizzandoli in maniera appropriata creano beneficio. In caso contrario sbilanciamo questo rapporto, con il rischio di una mancanza di efficacia, o di andare incontro a fenomeni di tossicità e effetti collaterali. Quando parliamo di prodotti a base di cannabis non approvati dalle Autorità Regolatorie, ossia la cannabis medica, invece, la comunità medico scientifica riconosce delle potenzialità ad alcuni dei principi attivi presenti, è consapevole dell’efficacia, ma questa non è stata ancora confermata da studi clinici e, per alcune formulazioni o estratti, non si conosce il profilo di tollerabilità, soprattutto in relazione ad alcuni contesti patologici. Per i farmaci approvati dalle Autorità Regolatorie, esiste un sistema di farmacovigilanza che raccoglie tutte le segnalazioni di eventi avversi; nel caso della cannabis medica esiste un sistema di fitovigilanza gestito dall’Istituto Superiore di Sanità, applicato al mondo degli integratori, dei prodotti erboristici, fitoterapici e anche della cannabis medica».
«E’ il motivo per cui il rischio più grave è quello dell’automedicazione o della prescrizione non adeguata perché non è fatta dallo specialista», puntualizza la dottoressa Laura Tassi, presidente LICE (Lega Italiana contro l’Epilessia). «Lo specialista è la figura indispensabile poiché garantisce la diagnosi precisa e puntuale. Per il trattamento dell’Epilessia, un terzo dei pazienti non risponde ai farmaci tradizionali: in questi casi cerchiamo di utilizzare la cannabis, che sembra funzionare in alcuni tipi di epilessia, come la sindrome di Tourette. «Un altro elemento importantissimo è che la cannabis non viene mai assunta da sola, ma con altri farmaci: un motivo in più per essere prescritta dallo specialista. Riassumendo, lo specialista deve fornire una diagnosi accurata, avere la formazione adeguata a utilizzare la cannabis, modificando il dosaggio sulla base della risposta terapeutica».
«Il tema dell’appropriatezza prescrittiva è centrale per il regolatore: una prescrizione farmacologica può essere considerata appropriata se effettuata all’interno delle indicazioni cliniche per le quali il farmaco si è dimostrato efficace e in relazione alle sue indicazioni d’uso (dose e durata del trattamento)», commenta la Professoressa Marcella Marletta.
«L’appropriatezza è un tema centrale anche quando si parla di cannabis medica. Formazione e corretta informazione rappresentano capisaldi in ogni ambito, ma risultano imprescindibili in quello medico e scientifico, dove la tutela della salute dei pazienti deve essere prioritaria». Un elemento su cui c’è stato un perfetto allineamento degli esperti è quello di sradicare la convinzione errata da parte della maggioranza della popolazione che “tutto quello che è naturale non faccia male”. «Questa affermazione è falsa», conclude il Professor Russo. «Tra i veleni più pericolosi ci sono quelli che vengono dalla natura. E così anche la cannabis ha effetti collaterali, che in parte conosciamo, per i quali esiste un rischio importante. Nell’ambito oncologico, ad esempio, se l’utilizzo della cannabis non viene gestito in modo appropriato, c’è il pericolo che vada ad inficiare le altre terapie a cui è sottoposto il paziente, se non causare un danno diretto. Per questo è fondamentale evitare nella maniera più assoluta “il fai da te”, ma avere sempre alle spalle un medico specialista che si occupi della prescrizione, a cui fare riferimento in caso di eventuali criticità».

di Paola Trombetta

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