La voce delle associazioni che si adoperano per mettere in salvo le donne afghane

31 agosto: con la partenza dell’ultimo volo Usa, sono terminati 20 anni della missione americana e degli alleati, iniziata dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York. Ora l’Afghanistan è in mano ai talebani, ritornati al potere dopo il ritiro in fretta e furia delle truppe americane, culminato domenica 15 agosto con l’occupazione della capitale Kabul. Tramonta anche l’ipotesi di una safety zone,sotto l’egida dell’Onu, per evacuare gli afghani in pericolo. Le donne, soprattutto, sono sole. In grave pericolo sono soprattutto le militanti che hanno lavorato per i diritti delle donne e quelle aiutate dalle Ong per promuovere progetti di emancipazione. A Kabul le donne si nascondono. Sono sparite dalle strade, hanno abbandonato le scuole, le università, i posti di lavoro. Chiudono i profili instagram, bruciano i vestiti occidentali e si procurano dei chadari, i burqa afghani, come raccontano le testimonianze. Tutti in Afghanistan stanno distruggendo ciò che può compromettere la sicurezza personale: libri, vestiti, carte e fogli che provino un rapporto di qualsiasi tipo con gli Occidentali. Intanto qualche donna è riuscita salvarsi, come ci raccontano le associazioni che si stanno adoperando per mettere in salvo le persone in pericolo. Tra le Onlus particolarmente attive, Pangea, Fondazione milanese che dal 1999 si occupa di diritti umani, microcredito e progetti di alfabetizzazione. A Kabul, Pangea aveva anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglieva circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Pangea è riuscita a far imbarcare le sue attiviste a Kabul, dopo drammatici giorni di attesa e terrore in aeroporto, senza cibo né acqua, senza potersi mai sedere, pigiate nella folla, picchiate dai talebani. Infatti 240 persone, tra collaboratrici e familiari, ce l’hanno fatta. “Salve ma con il cuore spezzato”, si legge nell’ultimo post di Pangea. «Abbiamo distrutto tutti i documenti dell’archivio di Kabul, per non lasciare traccia delle persone che aiutano le donne e delle donne stesse che si sono emancipate», ha raccontato Simona Lanzoni, vicepresidente dell’associazione Pangea. «Aver lavorato per i diritti delle donne diventa una macchia: una colpa che può portare a essere violentate, frustate pubblicamente, torturate, fino a essere uccise. E a punire anche i familiari».

In salvo anche 8 donne, tutte afghane, di età compresa fra 25 e 40 anni, tra medici e tecnici di laboratorio, che lavoravano per la Fondazione Umberto Veronesi, al Centro per la diagnosi del Tumore al seno di Herat, caduta nelle mani dei talebani il 12 agosto. Dopo essere atterrate a Roma Fiumicino, sono arrivate con un pullman a Milano. Con loro ci sono sedici bambini, il più grande ha otto anni, alcuni solo pochi mesi. E al loro fianco ci sono anche i mariti o compagni. «La chiusura del centro di diagnosi è risultata inevitabile, quando i talebani sono entrati a Herat e ne hanno preso il controllo. In quel momento abbiamo capito che dovevamo scappare», ricorda Annamaria Parola, responsabile Relazioni istituzionali e Progetti internazionali della Fondazione Veronesi. Il Centro era stato   inaugurato nel 2013 in un’ala vicina all’Ospedale pubblico regionale Maternity Hospital; vi accedevano gratuitamente circa mille donne l’anno e aveva formato personale afghano e fornito attrezzature all’avanguardia. «Per noi la chiusura dell’ambulatorio di Herat rimane una sconfitta. Oggi a Herat non c’è più nessuno che si occupi di tumori al seno. Stiamo cercando di contattare il Maternity Hospital, attiguo al Centro, perché mettano in salvo e possano utilizzare il mammografo e l’ecografo che in Afghanistan sono introvabili». Ma una nuova sfida comincia ora: «Per le otto donne in salvo chiederemo lo status di rifugiato politico. Saremo al loro fianco per costruire una vita dignitosa qui, anche aiutandole a validare i loro titoli di studio».

A temere la violenza del gruppo islamista e la rigida applicazione della sharia, la legge islamica, sono anche le tantissime donne che, soprattutto nelle città – Kabul in particolare – in questi anni hanno faticosamente studiato, lavorato, fatto impresa e si sono emancipate. Con tutta probabilità non potranno più farlo e saranno in pericolo di subire severe pene. Molte donne afghane sono già in grave difficoltà. Lontano dai riflettori di Kabul, le notizie che arrivano sono drammatiche. A livello internazionale i talebani garantiscono che i diritti acquisiti non saranno intaccati, ma in realtà stanno facendo veri e propri rastrellamenti, casa per casa, soprattutto nei villaggi per rapire adolescenti e costringerle a matrimoni forzati. Nelle zone conquistate le donne hanno già dovuto abbandonare il lavoro, la scuola: la musica è stata immediatamente proibita. Nella loro prima fatwa, stop alle classi miste nelle università pubbliche e private. «L’impressione che ci siamo fatti da quello che ci viene riferito dalle nostre amiche in Afghanistan, racconta Laura Quagliolo, una delle fondatrici del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda) è che i talebani aspetteranno che il circo mediatico di queste ore si spenga, per far applicare le loro leggi e far peggiorare in modo radicale la situazione delle donne». È la fine dell’emancipazione femminile, ha commentato Emma Bonino, ex ministra degli Esteri ed ex commissaria Ue. «Non c’è speranza per le donne di Kabul. I leader occidentali si sbracciano ad annunciare sostegno ai diritti delle donne afghane, sostegno… ma sono pie intenzioni».

Chi rispetta i diritti femminili in Afghanistan?
Almeno nelle dichiarazioni, l’occupazione dell’Afghanistan era stata combattuta anche in nome dei diritti femminili. Ma, con il ritiro degli occidentali, torna la paura. «Quando nel 2003 siamo arrivati in Afghanistan», ricorda la vicepresidente di Pangea Simona Lanzoni, «c’erano donne che non uscivano di casa da quattro anni. Quelle che infrangevano le regole dei talebani venivano regolarmente fustigate o giustiziate. Costrette a indossare il burqa dall’età di otto anni, non potevano lavorare, né frequentare le scuole, né guidare o uscire di casa, se non accompagnate da un uomo di famiglia. A Kandahar le donne che si dipingevano le unghie rischiavano il taglio delle dita e vigeva il divieto di indossare scarpe con il tacco in quanto “nessun estraneo dovrebbe sentire i passi di una donna”… L’adulterio veniva punito con la condanna a morte per lapidazione, vietate le relazioni omosessuali». Dopo la fuga dei talebani da Kabul nel 2001 per le donne, soprattutto nelle città, si era aperto qualche spiraglio, anche grazie alle organizzazioni umanitarie che operavano sul territorio: molte donne hanno potuto studiare e lavorare, seppure con grandi difficoltà, e alcune avevano anche raggiunto posti di responsabilità e altre avevano gettato alle ortiche il burqa. Anche se il Paese è ancora considerato il peggior posto in cui nascere per una donna (Fonte: Human right) in questi 20 anni, secondo la Banca mondiale, la mortalità infantile si è dimezzata, così come il numero dei bambini sottopeso. L’indice di alfabetizzazione è schizzato dall’8 al 43 per cento; i matrimoni precoci sono diminuiti, dicono i dati dell’Onu, del 17 per cento. E metà della popolazione ha accesso alle cure mediche, contro il 25 per cento dell’inizio degli anni Duemila. L’arrivo dei talebani, che governavano già gran parte del Paese, cancellerà anche quei piccoli passi nel percorso di rivendicazione dei loro diritti? Quante di queste conquiste resisteranno e quante svaniranno con la velocità con la quale gli estremisti si sono ripresi il Paese? Se sono stati vent’anni “inutili” o no, molto dipenderà da quanto continueremo ad occuparci della sorte di chi resta da domani in poi. “Non dimenticate l’Afghanistan” è l’appello di F.R, 40 anni, la ginecologa afghana che lavorava al Centro per la prevenzione del tumore al seno della Fondazione Veronesi a Herat, e da pochi giorni ha trovato rifugio in Italia con la sua famiglia. Ringrazio l’Italia per il calore che ci dà, ma penso ai miei, alle donne che curavo”, ha raccontato all’ANSA. «Noi non possiamo voltare lo sguardo dall’altra parte. Ora che le attiviste sono state evacuate, le cose cambieranno: occorrerà ripensare al progetto e trovare nuove soluzioni, ma c’è voglia di continuare a lavorare, perché quello che si è costruito negli anni non vada perso», assicurano da Pangea. «L’Onu e i governi facciano la loro parte; noi donne la nostra. Mobilitiamoci a fianco delle nostre sorelle e dei nostri fratelli». È l’appello di Linda Laura Sabbadini della delegazione italiana del Women20 (uno degli engagement group del G20). «Sono in gioco le vite di generazioni di donne e uomini che hanno creduto al cambiamento, del presente e del futuro di milioni di bambini».

di Cristina Tirinzoni

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