“Ccuriamo”, un progetto per scoprire chi non sa di avere l’epatite C

È l’obiettivo sancito dall’OMS: eliminare l’epatite C entro il 2030. E l’Italia finora ha conseguito risultati importanti: sono stati trattati più di 200mila soggetti, un ottimo punto di partenza che permette al nostro Paese di rimanere in corsa per il raggiungimento dell’obiettivo fissato dall’OMS. Tuttavia, i recenti dati AIFA hanno evidenziato un decremento dei pazienti avviati al trattamento. Servono, dunque, strategie di ricerca del “sommerso”, per poter rintracciare le persone che non sanno di avere l’infezione, sia per curare loro stessi che per impedire nuovi contagi. Tra le iniziative, è stato presentato i giorni scorsi in Senato “CCuriamo”, un progetto ideato da ISHEO, Società di Ricerca, Consulenza e Formazione, impegnata nell’analisi di impatto economico e sociale dell’innovazione in Sanità. L’obiettivo è quello di realizzare una fotografia aggiornata della strategia di eliminazione dell’HCV in Italia, chiamando in causa il ruolo imprescindibile delle Regioni. L’obiettivo è concentrare l’attenzione sull’epatite C, osservando questa malattia nella sua rilevanza sociale: facendo riferimento a un “noi”, la prima C vuole indicare che l’eliminazione è un beneficio per tutta la popolazione, un obiettivo di salute pubblica appunto, e dunque da perseguire rapidamente da parte del nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Il numero esatto delle persone con infezione da HCV in Italia non è noto; tuttavia, con una stima di circa l’1% della popolazione, siamo considerati uno dei paesi con la più alta percentuale di infettati in Europa. Se il numero dei pazienti da trattare resta alto, sulla media dei trattamenti di questi ultimi 4 anni, il bacino dei malati con un’infezione diagnosticata e quindi trattata, terminerebbe entro il 2023. A rimanere esclusa è una grande percentuale di pazienti che non sanno di essere contagiati e che si stima siano tra i 200 e i 300mila. «È indispensabile identificare strategie opportune per far emergere il sommerso dell’infezione da HCV», sottolinea la dottoressa Loreta Kondili, Medico Ricercatore presso il Centro Nazionale per la Salute Globale, Istituto Superiore di Sanità. «Gli individui che riportano fattori di rischio per l’infezione, quali lo scambio di siringhe, soprattutto chi fa uso di stupefacenti, oppure la popolazione carceraria o ancora i migranti da paesi ad alta prevalenza di HCV, sono soggetti sui quali deve essere applicata la strategia “testare e trattare” indipendentemente dalla loro età. Per quanto riguarda l’eliminazione dell’infezione da HCV in tutta la popolazione infetta, l’Istituto Superiore di Sanità ha valutato come costo-efficace un approccio di screening per coorti di età, che prevede anzitutto l’applicazione di un test di screening in primis nella popolazione nata tra il 1968 e il 1987 (con più alta prevalenza di infezione non nota e più a rischio di trasmissione), per proseguire con lo screening dei nati tra il 1948 e il 1967 (che avevano le prevalenze più alte dell’infezione, ma che oggi sono ormai guariti). L’applicazione di questa strategia permetterà l’aumento delle diagnosi delle infezioni non note a un costo nettamente inferiore per il SSN rispetto a uno screening universale e consentirà di raggiungere i target di eliminazione del virus».

«Per far emergere il sommerso sono necessarie nuove strategie che devono rendere più semplice l’accesso agli screening e ai trattamenti negli ospedali, permettere la somministrazione della terapia con modalità semplificate, e soprattutto andare sul territorio per raggiungere quei pazienti più fragili che hanno difficoltà a rivolgersi alle strutture ospedaliere», dichiara il professor Massimo Andreoni, Direttore Scientifico SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali). «Finora sono state adottate alcune iniziative alternative, come le unità mobili che vanno in giro per le città arruolando soggetti per l’esecuzione del test. Per esempio, negli ultimi due anni, in occasione della Giornata Mondiale dei Poveri del 21 novembre, è stato organizzato in Piazza San Pietro un ospedale da campo facilmente accessibile alle persone più fragili e in particolare a quelle senza fissa dimora. Il progetto si è rivelato molto efficace: ha permesso di studiare circa 500 soggetti che difficilmente sarebbero giunti presso strutture ospedaliere e in questa popolazione si è trovata una prevalenza dell’infezione di circa il doppio rispetto alla popolazione generale». L’ambulatorio mobile ha già fatto tappa a Firenze, in occasione del Congresso della SIMG – Società Italiana di Medicina Generale e a Sanremo nella settimana del 70° Festival. «Lo scopo di queste iniziative è quello di sensibilizzare la popolazione sui corretti atteggiamenti di prevenzione per le malattie infettive e di informare su quelli che sono i rischi concreti, alla luce dell’allarmismo suscitato dal coronavirus, utilizzando le risorse che offre il territorio», sottolinea Alessandro Rossi, membro del direttivo SIMG.

«Servono screening gratuiti per le popolazioni a rischio e un rapido avviamento al trattamento», sottolinea il professor Salvatore Petta, segretario AISF (Associazione Italiana per lo Studio del Fegato). «Presso carceri e SerD è necessario realizzare test con modalità semplici come il test salivare. Fino ad ora ci sono stati progetti pilota che non hanno però coinvolto tutte le strutture di questo tipo. Per quanto riguarda invece la popolazione over 60 – aggiunge Petta – bisogna puntare sul coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale e sulle farmacie: i referenti di queste categorie devono essere istruiti per individuare i possibili soggetti a rischio. Le farmacie sono luoghi dove i pazienti anziani vanno di frequente e devono diventare punto di informazione e screening».

di Paola Trombetta

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