Lupus: è “rivoluzione” terapeutica

Migliora la qualità della vita per le donne affette da Lupus Eritematoso (LES): niente più day-hospital, ricoveri, trasferimenti, giornate di lavoro perse, gestione del proprio tempo in funzione della terapia. Per trattare la malattia, ora bastano 20 secondi, una sola volta a settimana: necessari e sufficienti a iniettarsi la terapia sottocute con una penna preriempita (che evita il rischio di sovra o sottodosaggi) semplicemente appoggiando il device sulla pancia o sulla coscia e facendo un clic su un pulsante. Fatto: il farmaco è in circolo e promette tutta la sua efficacia. «Belimumab – spiega il professor Andrea Doria, Direttore della Reumatologia dell’Ospedale di Padova e tra i massimi esperti internazionali di Lupus – è il primo e per ora l’unico anticorpo monoclonale specifico per il Lupus eritematoso sistemico (LES). La molecola non è nuova, poiché è già impiegata in Italia dal 2013 in infusione endovenosa una volta al mese, in combinazione con la terapia standard, dimostrando in diversi studi la capacità di tenere sotto controllo la malattia e di rallentare il danno d’organo. Innovativa è la “riformulazione” della molecola che favorisce i pazienti che hanno problemi con l’endovena, con ulteriori sensibili vantaggi, quali facilità di somministrazione, sicurezza terapeutica, risparmio per il servizio sanitario nazionale». Lo dichiarano anche i pazienti che del sottocute apprezzano soprattutto la possibilità di gestire la cura in modo autonomo e di poter meglio conciliare l’attività lavorativa e la vita privata con la propria malattia.

La terapia è adatta per forme di LES attivo: una malattia autoimmune, a base infiammatoria, i cui anticorpi attaccano specifici organi bersaglio, prevalentemente la pelle (85%) e le articolazioni (95%) con possibili danni importanti e irreversibili a carico di cuore, reni, polmoni, sistema nervoso centrale, apparato respiratorio ed emopoietico, responsabile della produzioni di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Sebbene si siano acquisite nuove conoscenze, il LES resta ancora una problematica “rara” per la difficile diagnosi, la variabilità e imprevedibilità delle manifestazioni e le relativamente ridotte opzioni terapeutiche (fino a qualche anno fa era “orfana” di trattamenti) ma non per diffusione. Infatti, in Europa si registrano circa 15-50 casi ogni 100 mila abitanti con una prevalenza superiore per l’Italia, a sfavore delle donne in età fertile tra i 15 e i 44 anni, con un rapporto di 9 a 1 rispetto al maschio, e di  2 a 1 nei bambini (il 20% dei casi di malattia è pediatrico, spesso con prognosi peggiore) o in età postmenopausale.
«Il LES – aggiunge il professore – è una malattia complessa determinata da una complicità di fattori: la predisposizione genetica (sono oltre venti i geni associati al LES); gli stimoli ambientali, tra cui infezioni virali soprattutto parvovirus b19 e citomegalovirus, raggi UV, sostanze tossiche, steroidi sessuali, prolattina, anomalie immunitarie». Una malattia “difficile” fin dagli esordi: in otto casi su 10 è insidiosa, con manifestazioni subdole come febbre intermittente, quasi mai preceduta da brividi, dolori articolari, stanchezza; sintomi tutti poco specifici e confondibili con problematiche di altra natura, come uno stato influenzale. La difficoltà nel riconoscere chiaramente i sintomi iniziali del LES  porta a un ritardo diagnostico, in media di tre anni rispetto all’insorgenza, con un aggravamento della malattia e possibili danni aggiuntivi agli organi tali da potere causare complicanze importanti, talvolta fatali.

La buona notizia è che il LES consente comunque alla donna di soddisfare il desiderio di maternità: «Fino a qualche anno fa – precisa il professor Doria – i medici sconsigliavano la gravidanza alle pazienti; oggi non è più così, sebbene vada valutato con attenzione il periodo di programmazione, compreso quello terapeutico. Ad esempio, durante la gestazione, la malattia tende a migliorare, soprattutto quando il LES è sotto controllo; dunque la gravidanza, in accordo con il medico, va “concepita” nelle fasi di remissione stabile della malattia, potendo così ridurre anche il rischio di complicanze, più frequenti durante le riacutizzazioni, di cui alcune anche gravi. Tra queste l’insufficienza renale potenzialmente pericolosa sia per la madre che per il feto». Occorre allerta anche dopo il parto perché il LES può riacutizzarsi sia nelle ultime settimane di gravidanza o subito dopo la nascita del bimbo, richiedendo pertanto un attento e accurato monitoraggio nelle fasi finali di gestazione. Il bambino, invece, resta al sicuro dal rischio di ereditare il LES dalla mamma. «Al momento della nascita – aggiunge l’esperto – possono tuttavia essere presenti eruzioni cutanee transitorie che si mantengono per qualche mese, legate alla presenza di auto-anticorpi materni che hanno attraversato la placenta».

Cosa fare in tutti gli altri casi o quando il Belimumab non è indicato? Il trattamento va studiato in funzione delle manifestazioni, della gravità della malattia, delle condizioni del paziente con lo scopo di riuscire a controllare il  LES, limitando i possibili effetti collaterali, prevenendo le riaccensioni o ulteriori danni d’organo. «Occorre evitare la tossicità del trattamento, fare attenzione alla presenza di patologie concomitanti, sapendo però che le terapie attuali non sono in grado di offrire un controllo completo dei sintomi e dei possibili risultati a lungo termine. Oggi le opzioni terapeutiche standard  ci sono e possono consistere in cortisonici in grado di bloccare rapidamente il processo infiammatorio valutando tuttavia il rischio di effetti collaterali con un’assunzione “cronica”. A questi si aggiungono i citostatici/immunosoppressori, molecole che bloccano, dopo alcune settimane di somministrazione, la moltiplicazione delle cellule. Vanno tuttavia a colpire, oltre le cellule bersaglio, anche alcune altre che nell’organismo si riproducono rapidamente, prime tra tutte quelle del sangue: questi farmaci  richiedono dunque anche l’attento monitoraggio di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. Mentre gli antimalarici, usati soprattutto quando sono coinvolte pelle e cuoio capelluto o nelle forme con artrite, pleurite e pericardite raccomandano visite oculistiche periodiche per possibili danni a carico degli occhi. Infine gli antiinfiammatori non steroidei (FANS), indicati quando sono presenti dolori articolari, febbre o altri sintomi a carico di muscoli e ossa, possono influire su apparato digerente e reni».

di Francesca Morelli

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