Tumore al seno: stile di vita e terapie adiuvanti per evitare recidive

In Italia sono 800 mila le donne che vivono dopo un tumore al seno. E le percentuali di sopravvivenza negli ultimi 15 anni sono cresciute del 6%, passando da 81 a 87% a 5 anni, risultando nettamente superiori a quelle di altri Paesi europei. L’utilizzo di terapie adiuvanti (chemioterapia, ormonoterapia, farmaci a bersaglio molecolare, radioterapia) hanno permesso di raggiungere questi risultati. Ma diversi studi hanno dimostrato il ruolo importante dello stile di vita nella prevenzione terziaria, che mira cioè ad evitare il ritorno della malattia. Lo hanno confermato gli specialisti intervenuti al Convegno AIOM “Carcinoma mammario, traguardi raggiunti e nuove sfide”, che si è tenuto i giorni scorsi a Roma, a chiusura del mese dedicato a questo tumore, e in vista del Congresso nazionale AIOM che si svolgerà dal 16 al 18 novembre a Roma. Nell’occasione abbiamo intervistato la professoressa Stefania Gori, presidente AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e direttore del Dipartimento oncologico, IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Negrar.

 Quanto è importante lo stile di vita nella prevenzione di una recidiva di tumore al seno?
«Lo stile di vita sano è fondamentale non solo per non ammalarsi di tumore, ma anche per ridurre le recidive, la ricomparsa cioè di malattia dopo i trattamenti effettuati alla diagnosi di tumore iniziale. Dati del mondo anglosassone fanno stimare che il 50% dei tumori potrebbero essere evitati con stili di vita corretti. Sono sufficienti 150 minuti di attività fisica a settimana (anche una semplice camminata veloce) per ridurre del 25% la mortalità per tumore nelle pazienti che hanno già ricevuto la diagnosi, rispetto alle donne sedentarie; evitare di ingrassare dopo la diagnosi (ingrassare di 5 chili può aumentare fino al 13% la mortalità). E l’attività fisica è importante anche per assicurare una buona qualità di vita a donne con pregresso carcinoma mammario. Uno studio osservazionale, coordinato dall’Oncologia Medica dell’Istituto Regina Elena di Roma, ha dimostrato come praticare “dragon boat”(un particolare tipo di pagaiata) possa determinare una ridotta incidenza di linfedema, cioè del gonfiore del braccio, nelle donne con precedente asportazione dei linfonodi dell’ascella, per carcinoma mammario, associato a un  netto miglioramento dello stato emotivo. Attenzione poi al fumo di sigaretta. Le donne che hanno abbandonato questa pericolosa abitudine, ma che in passato hanno fumato da 20 a 35 sigarette, presentano un rischio di ricomparsa di carcinoma della mammella del 22%, del 37% per le fumatrici di più di 35 sigarette e del 41% per coloro che non hanno mai smesso».

Quante donne riescono a modificare le proprie abitudini di vita dopo un tumore?
«Purtroppo il cambiamento dello stile di vita dopo un tumore non è semplice. Sono tante le pazienti che si lasciano la malattia alle spalle e tornano però ai comportamenti scorretti, dal fumo alla sedentarietà, fino alla dieta sbagliata. Infatti solo l’11% di queste donne incrementa l’attività fisica, e solo il 15% sceglie una dieta più sana. Serve quindi più impegno nella prevenzione terziaria. E questo significa parlarne: meno della metà degli oncologi parla con le pazienti di questi aspetti e  nel contempo le donne  hanno poca consapevolezza dell’importanza degli stili di vita corretti. La mancata adesione a queste semplici regole (attività fisica costante, dieta equilibrata, no al fumo) rischia di vanificare gli importanti risultati ottenuti grazie alle campagne di prevenzione e alle terapie adiuvanti sempre più efficaci».

Quanto è importante la diagnosi precoce, sia di un tumore che di una eventuale recidiva?
«E’ fondamentale la diagnosi precoce, che intercetti le forme iniziali di tumore alla mammella, consentendo trattamenti più conservativi e maggiore possibilità di guarigione. Anche perché il tumore al seno colpisce soprattutto persone dopo i 70 anni e sta aumentando nella fascia d’età giovanile, prima dei 40 anni, una fascia d’età non protetta. Lo screening mammografico prevede una Rx-mammografia ogni due anni nelle donne dai 50 ai 69 anni. In alcune Regioni (Emilia Romagna, Veneto, Piemonte) sono stati estesi fino a 74 anni d’età (oltre la metà dei tumori mammari sono diagnosticati nelle donne con più di 70 anni). In alcune regioni è stato inoltre ampliato lo screening per le donne anche da 45 a 49 anni e questo spiega l’aumento del numero di nuove diagnosi riscontrate in questa fascia d’età. E’ importante quindi rivedere l’età delle donne che dovrebbero essere chiamate per effettuare una Rx-mammografia di screening e cercare di far aumentare l’adesione. Regioni come Trentino, Emilia Romagna, Toscana raggiungono percentuali di adesione allo screening rispettivamente del 75%, 73%, 71%, rispetto alla Sicilia e alla Campania, dove i risultati sono deludenti (34% e21%). E’ dunque indispensabile una capillare informazione delle donne, con il coinvolgimento dei medici di famiglia, i primi referenti a incentivare gli screening. A loro spetta anche il compito di seguire la paziente dopo la diagnosi e contribuire all’adesione alle terapie che, negli ultimi anni, hanno decisamente migliorato la prognosi».

Anche la prognosi del tumore della mammella metastatico è migliorata negli anni?
«Sicuramente. E questo grazie ai progressi diagnostici: riusciamo infatti a diagnosticare forme metastatiche all’inizio e intervenire subito con i nuovi farmaci sempre più mirati per quel particolare tipo di tumore. Si distinguono tre sottogruppi di tumori mammari: con recettori ormonali positivi (cioè con positività dei recettori per gli estrogeni e/o per il progesterone); HER2-positivi (in cui è presente la proteina HER-2 in quantità eccessiva) e triplo negativi (che non esprimono i recettori ormonali, né il recettore HER2). Oggi esistono molte armi a disposizione per combatterli: dalla chemioterapia all’ormonoterapia, alle terapie target, fino all’immunoterapia. Nei tumori HER2-positivi, grazie alla presenza di terapie mirate che interferiscono bloccando il recettore HER2 e che sono utilizzate sia nelle forme iniziali non metastatiche sia nelle forme metastatiche, è cambiato radicalmente il decorso clinico. Nelle forme metastatiche, i farmaci anti-HER2, associati alla chemioterapia o all’ormonoterapia, determinano una sopravvivenza delle pazienti molto più lunga che in passato. Mentre agli inizi del Duemila il 50% delle pazienti metastatiche con tumori HER2-positivi sopravviveva oltre 25 mesi, con la somministrazione di chemioterapia associata a un solo anticorpo anti-HER2, oggi i risultati delle sperimentazioni cliniche ci dicono che il 50% delle pazienti metastatiche sopravvive oltre i 56 mesi, con l’utilizzo di chemioterapia associata a “due” anticorpi monoclonali.

Quali novità terapeutiche?
«Recentemente sono state introdotte nella pratica clinica terapie mirate con inibitori di CDK4/6, una nuova classe di farmaci in grado di inattivare le proteine coinvolte nella replicazione delle cellule tumorali: la combinazione di queste molecole con la terapia ormonale rappresenta una nuova opzione di trattamento per le pazienti con carcinoma mammario avanzato e recettori ormonali positivi e HER2-negativo. Le prossime sfide riguardano i casi di tumore del seno metastatici più difficili da trattare: quelli triplo negativi, che costituiscono il 15% del totale. Sono importanti in questi casi le prospettive offerte dall’immunoterapia, in combinazione con la chemioterapia: i primi risultati in termini di sopravvivenza sono stati riportati in uno studio presentato al congresso della Società Europea di Oncologia Medica a fine ottobre 2018 a Monaco».

Un capitolo a parte meritano i tumori con alterazioni dei geni BRCA 1 e 2. Come vengono diagnosticati? Esistono terapie mirate che aumentano la sopravvivenza di queste donne?
«Le alterazioni dei geni BRCA 1 e/o BRCA 2 sono responsabili di circa il 2-3% delle neoplasie mammarie e di oltre il 10% dei tumori dell’ovaio. Oggi esistono criteri internazionali (ad esempio una diagnosi di carcinoma mammario in età giovanile) che ci permettono di inviare donne con carcinoma mammario o con carcinoma ovarico agli ambulatori di consulenza genetica, dove verranno valutate (anche in base a fattori che vengono poi elaborati da programmi informatizzati) per decidere se effettuare il test genetico o meno. In donne con carcinoma della mammella e mutazione BRCA1 e/o 2 in fase metastatica, utilizziamo farmaci chemioterapici tradizionali (ad esempio, platini), ma sono in studio farmaci appartenenti alla classe dei PARP-inibitori. Questi ultimi sono già disponibili in Italia per il carcinoma ovarico avanzato e mutazione BRCA1 e/o 2».

Cosa fare nelle donne sane di una famiglia, in cui una parente con carcinoma mammario o ovarico è risultata avere un’alterazione dei geni BRCA1 e/o 2?
«Le donne sane della famiglia devono essere chiamate e valutate (previo il loro consenso) per confermare o meno la presenza di una mutazione BRCA1 e/o 2. Nel caso di donna sana con mutazione BRCA si inizieranno dei percorsi di sorveglianza attiva per la diagnosi precoce di carcinoma mammario o ovarico oppure si potrà proporre una chirurgia profilattica (mastectomia bilaterale; asportazione di tube ed ovaie) che può determinare una riduzione della comparsa di tumore mammario pari al 90-100% e di tumore ovarico pari all’80-85%».

di Paola Trombetta

Articoli correlati