Relativamente raro, ma possibile: l’ictus può colpire anche i bambini in età perinatale, cioè tra la 20a settimana gestazionale e il 28° giorno di vita, con una incidenza stimata tra 25-40 casi ogni 100.000 nati/anno o in età pediatrica, dal 29° giorno di vita ai 18 anni, in 1,3-13 casi su 100.000 nati/anno. Nei Paesi sviluppati, l’ictus, nei bambini/giovani, resta una delle più frequenti cause di disabilità, con implicazioni che, a seconda della complessità e severità, possono coinvolgere la sfera motoria, sensoriale, cognitiva e comportamentale, oltre a poter avere conseguenze neurologiche, come l’epilessia, ed è tra le prime dieci cause di morte con una percentuale più alta nel primo anno di vita. Fondamentale, visto il contesto “difficile”, è una presa in carico riabilitativa multidisciplinare, tempestiva, che ha l’obiettivo di favorire il massimo livello di partecipazione possibile a tutte le attività quotidiane, migliorando la qualità di vita dei piccoli pazienti. Eppure, nonostante la maggior plasticità cerebrale dei bambini/giovani non sempre il recupero è migliore rispetto all’adulto; resta essenziale che questo percorso venga svolto e guidato da un terapista occupazionale, secondo modalità individualizzate, quindi con attività diverse in relazione al contesto della problematica, all’età, all’impegno portato avanti nella quotidianità, all’ambiente familiare, integrandosi con altre figure delle professioni riabilitative e assistenziali nell’identificare, ad esempio, gli ausili necessari e i corretti posizionamenti per favorire l’allineamento posturale e, nel percorso riabilitativo, per accompagnare il rientro a casa, valutando l’accessibilità degli ambienti di vita, domicilio, scuola e ambienti sociali.
«Rabbia, frustrazione, depressione, senso di isolamento e paura per il futuro sono sentimenti spesso presenti nelle persone colpite da ictus, soprattutto se si tratta di adolescenti – dichiara Marta Bertamino, specialista in Pediatria, UOC Medicina Fisica e Riabilitazione dell’IRCCS Ospedale Gaslini di Genova. Consentire a queste persone di riappropriarsi della propria autonomia, anche se in una forma diversa rispetto a quella sperimentata prima dell’ictus, ha ricadute positive sulla qualità di vita non solo del bambino/ragazzo, ma anche della famiglia. Il terapista occupazionale può aiutare il bambino, i caregiver e le comunità attraverso un supporto educativo alle autonomie e alla promozione del senso di competenza». In buona sostanza, aiutando i bambini a recuperare le abilità perse o in alcuni casi a raggiungere obiettivi di autonomia laddove questi, a causa della precocità dell’evento, non erano ancora stati acquisiti. «Partecipazione, autonomia e inclusione – conclude Andrea Vianello, Presidente di A.L.I.Ce. Italia Odv (Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale) – sono le parole chiave del “recupero” soprattutto quando si tratta di bambini o adolescenti e, in questo, l’intervento del terapista occupazionale è di cruciale importanza in una situazione così complessa come quella causata dalla disabilità post ictus».
Francesca Morelli