«L’Alopecia Areata è una malattia autoimmune. Ma per chi ne soffre, spesso, è molto di più: è una sfida quotidiana, una ferita aperta, un dramma intimo e sociale». Lo sa bene Claudia Cassia, presidente dell’Associazione Italiana Pazienti Alopecia and Friends (AIPAF OdV) che da 30 anni soffre di questo problema. «A chi mi chiede cosa comporti davvero, rispondo: non è solo una malattia visibile, è una condizione che cambia il modo in cui ci vediamo, in cui le persone ci guardano. Perché la perdita dei capelli non è solo un fatto estetico, ma il segno visibile di un’aggressione del sistema immunitario contro il proprio corpo e interessa profondamente anche la nostra identità. Ci vuole un attimo per perdere qualcosa di sé: a volte bastano pochi minuti per accorgersi di una chiazza senza capelli, ciglia o sopracciglia. Ma poi ci vogliono anni di attese, di cure che non sempre funzionano, di ricadute, per sperare nella ricrescita. E il tempo ha un significato tutto diverso: diventa alleato e nemico insieme».
In Italia si stima che siano circa 120 mila le persone affette da Alopecia Areata. Un dato che rende visibile una patologia non sempre riconosciuta nella sua complessità, ma che può avere conseguenze profonde sul piano personale, relazionale e sociale. Eppure, ancora oggi, troppe persone ignorano cosa sia davvero. «Dobbiamo spiegare che non è colpa dello stress, ma una vera malattia autoimmune, spesso correlata ad altre patologie come il diabete, e che non è contagiosa, anche se molti si comportano come se lo fosse», aggiunge Claudia Cassia. «A pagarne il prezzo più alto sono i giovani: gli adolescenti che vengono bullizzati a scuola, i bambini esclusi dalla piscina perché “fanno impressione”, le ragazze che si nascondono sotto una parrucca, i ragazzi che smettono di uscire. E poi c’è anche la discriminazione sul lavoro. Due nostre associate che avevano vinto il concorso nell’Esercito e nell’Arma dei Carabinieri, proprio a causa di questa malattia non sono state dichiarate idonee. E poi l’obbligo di dover togliere la parrucca per le foto sul passaporto, come se la malattia fosse una colpa che non si può nascondere. Ma la nostra sofferenza non può essere ignorata solo perché “non si muore di Alopecia”: non si muore, ma si muore dentro. Ogni volta che non ci si riconosce più allo specchio. Ogni volta che lo sguardo degli altri ci ferisce più delle chiazze sulla testa. Ciò che fa ancora più male è l’incomprensione. C’è chi parla di “capelli che ricrescono”. C’è chi dice che “tanto ci sono problemi ben peggiori”. Capita che la diagnosi venga ritardata o fraintesa, soprattutto nei casi iniziali o nelle forme meno evidenti. Può essere confusa con altre condizioni dermatologiche, micosi o patologie infettive, e questo dimostra quanto sia importante continuare a investire nell’aggiornamento, affinché la patologia venga riconosciuta e gestita con competenza. Un inquadramento corretto, sin dai primi sintomi, fa la differenza nel percorso di cura. In molti casi, chi si accorge per primo del problema è il parrucchiere. Alla fine, siamo noi pazienti a dover cercare da soli le risposte: spesso ci sentiamo abbandonati, senza un accompagnamento adeguato lungo il percorso di cura. I corticosteroidi restano una delle terapie di prima linea previste dalle linee guida, soprattutto nei quadri clinici meno estesi. Ma per chi convive con forme gravi o recidivanti, l’effetto può rivelarsi solo temporaneo: alla sospensione del trattamento, i capelli spesso ricadono. E con loro, può crollare anche la speranza. Quello che chiediamo non è compassione, ma un accesso più equo alle cure: serve una rete di Centri competenti, capaci di accogliere e accompagnare il paziente. Anche un solo giorno a settimana, nei reparti di dermatologia, la presenza di uno specialista esperto in tricologia farebbe una differenza enorme. Perché la battaglia contro l’Alopecia Areata non è solo clinica, è anche culturale. Dobbiamo abbattere lo stigma, combattere la disinformazione, ridare dignità a chi soffre. Perché dietro la caduta dei capelli si nasconde molto di più: la perdita della propria identità, del proprio ruolo sociale, della libertà di essere sé stessi. A livello istituzionale, il nostro impegno è quello di continuare a dare voce ai pazienti perché i loro diritti vengano riconosciuti e tutelati dal Sistema Sanitario Nazionale. Chiediamo che l’Alopecia Areata venga inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), perché abbiamo il diritto di essere curati. È tempo che le istituzioni riconoscano che si tratta di una patologia vera e propria, che merita risposte e tutele».
Con la consulenza della professoressa Bianca Maria Piraccini, ordinario di Dermatologia all’Università di Bologna e direttore U.O. di Dermatologia del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, intervenuta alla conferenza stampa sull’Alopecia Areata a Bologna, cerchiamo di capire cos’è realmente questa patologia e quali novità terapeutiche sono oggi disponibili.
Cos’è l’Alopecia Areata e quali conseguenze comporta?
«È una malattia autoimmune a decorso cronico e imprevedibile, in cui il sistema immunitario, per un errore di riconoscimento, attacca i follicoli piliferi, interrompendo il loro ciclo di crescita e provocando la caduta dei capelli. Nei casi più gravi, la perdita può estendersi anche a sopracciglia, ciglia e altri peli corporei. Le difese immunitarie agiscono in modo errato su strutture sane: i follicoli vengono danneggiati, ma non distrutti e questo rende possibile la ricrescita, se l’infiammazione viene adeguatamente controllata. Le manifestazioni cliniche sono variabili: si va da piccole chiazze localizzate a forme estese e debilitanti, con un impatto significativo sulla qualità della vita. Non è considerata una patologia invalidante nel senso clinico del termine, ma le sue conseguenze sul piano psicologico ed emotivo possono essere molto impattanti. La perdita improvvisa dei capelli può infatti generare ansia, depressione e un forte calo di autostima. Colpendo persone di tutte le età, inclusi bambini e adolescenti, questa condizione rende particolarmente difficile il percorso di accettazione della propria immagine. A pesare ulteriormente è la percezione sociale della malattia, che può portare a isolamento, difficoltà nelle relazioni quotidiane e, in alcuni casi, a episodi di discriminazione. Per questo, un’efficace gestione della patologia richiede un approccio multidisciplinare, che coinvolga dermatologi, psicologi e medici di medicina generale».
Quali terapie possono essere utilizzate?
«Come per molte altre patologie autoimmuni croniche – tiroidite, diabete di tipo 1, psoriasi, dermatite atopica – anche per l’Alopecia Areata la ricerca ha portato allo sviluppo di trattamenti innovativi, capaci di rispondere in modo più mirato ed efficace ai bisogni dei pazienti. Per anni, le opzioni terapeutiche si sono limitate all’uso di corticosteroidi topici, sistemici o intralesionali, con risultati spesso temporanei e recidive frequenti. La comprensione del ruolo delle JAK-chinasi nella disregolazione immunitaria ha segnato un importante passo avanti, aprendo la strada a nuove soluzioni farmacologiche. Negli ultimi tre anni lo scenario terapeutico si è evoluto grazie all’introduzione di farmaci bersaglio-specifico. In Italia, questi trattamenti sono prescrivibili nei pazienti con interessamento del cuoio capelluto pari o superiore al 50%, secondo criteri ben definiti. Dopo un’accurata valutazione specialistica, è possibile attivare un piano terapeutico con dispensazione ospedaliera del farmaco. Le forme meno estese continuano a essere gestite con i trattamenti tradizionali già consolidati nella pratica dermatologica. Tra le nuove opzioni, gli inibitori delle JAK chinasi rappresentano un’importante novità: si tratta di terapie orali mirate che modulano la risposta immunitaria anomala e favoriscono la riattivazione del ciclo follicolare. La ricrescita, tuttavia, non è immediata: il follicolo ha bisogno di tempo per riprendere la produzione del capello, ed è quindi necessario un trattamento protratto per diversi mesi per poter osservare una prima risposta clinica».
Ci sono nuovi trattamenti all’orizzonte?
«Uno dei più promettenti è ritlecitinib, primo farmaco orale sviluppato appositamente per l’Alopecia Areata. È indicato per pazienti adulti e adolescenti, a partire dai 12 anni e ha dimostrato efficacia anche nelle forme gravi, come l’alopecia totale e universale. Somministrato una volta al giorno, ha cambiato l’approccio alla patologia, che oggi viene finalmente riconosciuta e trattata come una condizione autoimmune complessa e non più banalizzata come problema puramente estetico».
Questo farmaco può essere utilizzato anche nei pazienti giovani?
«L’indicazione anche negli adolescenti è fondamentale ed è la prima volta che la si ottiene: l’Alopecia Areata spesso esordisce in età scolare o nei giovani, talvolta con una singola chiazza, ma con un’evoluzione potenzialmente rapida. In questa fascia d’età, l’impatto psicologico è profondo: i cambiamenti dell’aspetto fisico possono compromettere la percezione di sé, la socialità e il benessere emotivo. I ragazzi si sentono “non più riconosciuti” e questo vissuto si riflette anche sul carico emotivo dei genitori. La disponibilità di nuove opzioni terapeutiche segna, quindi, un cambiamento concreto nella gestione dell’Alopecia Areata, orientando l’intervento clinico verso soluzioni mirate e basate su dati scientifici».
Qual è il suo meccanismo d’azione?
«Si tratta di un inibitore selettivo delle Janus chinasi 3 (JAK3) e della tirosin chinasi, interruttori che modulano molte funzioni cellulari: agisce bloccando la risposta autoimmune che colpisce i follicoli piliferi, interrompendo l’infiammazione, senza comprometterne la funzionalità e favorendo così la ricrescita dei capelli. La possibilità di somministrazione quotidiana in un’unica compressa migliora non solo l’aderenza alla terapia ma anche l’esperienza complessiva del paziente, che oggi può contare su una prospettiva terapeutica solida e durevole nel tempo».
Ci sono studi clinici recenti a dimostrazione della sua efficacia?
«L’indicazione di ritlecitinib per il trattamento dell’Alopecia Areata severa è supportata dallo studio ALLEGRO, un trial clinico internazionale, multicentrico, randomizzato e in doppio cieco, che ha coinvolto 718 pazienti con una perdita di capelli sul cuoio capelluto pari o superiore al 50%. Lo studio ha confrontato l’efficacia di ritlecitinib rispetto al placebo, valutando la capacità del farmaco di favorire la ricrescita dei capelli e migliorare la qualità di vita dei pazienti. Dopo 24 settimane, i risultati dello studio hanno dimostrato che il 13% dei pazienti trattati con il farmaco si trovava vicino alla remissione, con una copertura del cuoio capelluto superiore al 90%, mentre il 23% aveva una copertura superiore all’80%, rispetto all’1,6% dei pazienti nel gruppo placebo. Dopo 48 settimane, il 31% dei pazienti trattati con il farmaco si trovava vicino alla remissione. Anche lo studio ALLEGRO-LT, condotto a lungo termine per valutare la sicurezza e l’efficacia prolungata di ritlecitinib, ha dimostrato la sostenibilità del trattamento fino a 24 mesi, confermando così il farmaco come opzione terapeutica efficace e sicura per i pazienti con Alopecia Areata severa».
di Paola Trombetta