Covid: anticorpi monoclonali per i malati fragili

«Mia zia è stata ricoverata in ospedale a Cosenza tre settimane fa in gravi condizioni a causa dell’infezione da SARS-CoV 2, che le ha procurato una polmonite interstiziale, con più del 50% dei polmoni compromessi. Ha 69 anni e un anno e mezzo fa ha avuto una diagnosi di linfoma non Hodgkin. Quando ha contratto il Covid, dieci giorni dopo aver terminato la chemioterapia, le sue condizioni non erano particolarmente gravi, ma col passare dei giorni è rapidamente peggiorata, con febbre e difficoltà a respirare: abbiamo dovuto ricoverarla in ospedale dove le è stata diagnosticata una polmonite interstiziale, che ha richiesto la terapia con ossigeno ad alti flussi. Il medico di base inizialmente l’ha curata solo con tachipirina e antibiotico per abbassare la febbre. Ho saputo, lavorando nel settore medico, dell’esistenza di farmaci antivirali e anticorpi monoclonali che bloccano subito l’infezione: perché non sono stati somministrati a mia zia, trattandosi di una paziente con malattia emato-oncologica e dunque “fragile”? Avrebbero potuto debellare subito l’infezione ed evitare l’ ospedalizzazione?».

Le domande di Raffaella sul perché non siano stati utilizzati gli anticorpi monoclonali per contrastare l’infezione da SARS CoV 2 in una persona con malattia emato-oncologica, potrebbero riproporsi nei molti soggetti “fragili”, come i malati oncologici, chi soffre di malattie del sistema immunitario o infezioni come HIV, ma anche anziani, diabetici, obesi, più esposti al rischio di infezione. Nonostante l’OMS potrebbe dichiarare a breve la fine della pandemia, il Covid 19 è ancora diffuso e ogni giorno in Italia, secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute, muoiono circa 30 persone, 212 a settimana, principalmente tra i soggetti fragili. Ecco perché rimane una priorità di sanità pubblica incrementare tutte le attività finalizzate a una corretta profilassi vaccinale e all’utilizzo di terapie precoci e mirate. Se ne è discusso durante il convegno: “mAbs nell’Early Treatment. Controversie e consensi nel paziente fragile con Covid-19: non creiamo anticorpi”, promosso a Roma da GSK.

«Il trattamento precoce con anticorpi monoclonali e antivirali rappresenta a tutt’oggi la strategia più efficace, insieme alla vaccinazione, per prevenire l’ospedalizzazione, le complicanze e il decesso per Covid», conferma Massimo Andreoni, Direttore scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit). «Diverse condizioni, sia anagrafiche che cliniche, sono state correlate al rischio di progressione della malattia. Nella pratica clinica è comunque spesso complicato riuscire a classificare in maniera precisa la vulnerabilità e il grado di rischio dei singoli pazienti, anche perché la nuova variante Omicron si presenta con sintomi lievi, come febbricola, raffreddore e mal di gola. Nel momento iniziale della pandemia sono stati identificati come fattori di rischio: l’età avanzata, il sesso biologico maschile e l’obesità. Oltre a questi fattori, sono state definite altre condizioni di comorbidità che hanno consentito di identificare tipologie di pazienti a maggior rischio di sviluppare malattia grave. Tra queste, le patologie che colpiscono il sistema immunitario in modo diretto, come l’infezione HIV, i tumori ematologici, l’impiego di chemioterapia o immunosoppressione, che possono determinare un incremento del rischio di ospedalizzazione e malattia grave da COVID-19 e di prognosi infausta. Ecco perché la comunità scientifica per questi pazienti raccomanda una terapia precoce dell’infezione mediante anticorpi monoclonali».

«Nei pazienti fragili, il vantaggio dell’anticorpo monoclonale, rispetto ai farmaci antivirali, è quello di bloccare l’ingresso del virus prima dell’entrata nella cellula dell’ospite e di indurre l’attività citotossica anticorpo-dipendente nel caso in cui le cellule vengano infettate», spiega Carlo Federico Perno, direttore del Dipartimento di Microbiologia, diagnostica e immunologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. «Gli ulteriori vantaggi della terapia con anticorpi monoclonali riguardano la possibilità di essere utilizzati anche in soggetti che seguono altre terapie, in quanto le interazioni farmacologiche sono pressoché assenti. In particolare, in Italia è da poco disponibile un anticorpo monoclonale per il trattamento precoce dell’infezione da SARS-CoV-2, sotrovimab. Si è visto inoltre che questo anticorpo funziona bene anche nelle varianti di SARS CoV 2, come Omicron che attualmente è la più diffusa. Non a caso, lo scorso 21 febbraio il National Institute for Health and Care Excellence (Nice) è intervenuto raccomandando l’utilizzo di questo anticorpo monoclonale per i pazienti a più alto rischio di sviluppare malattia grave, per i quali siano controindicate altre opzioni terapeutiche».

Secondo le raccomandazioni dell’Aifa, gli anticorpi monoclonali devono essere somministrati entro 7 giorni dalla comparsa dei sintomi: il paziente non deve dunque essere ospedalizzato e sottoposto a ossigenoterapia supplementare. Devono essere presenti sintomi di grado moderato, con alto rischio di progressione a malattia severa. In tutti questi casi è necessario contattare tempestivamente il medico di medicina generale o lo specialista di riferimento.

«L’impiego degli anticorpi monoclonali (mAbs) è ormai un’efficace realtà terapeutica in diversi contesti, in particolare nelle malattie infiammatorie e nell’oncologia ematologica», chiarisce Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino. «Oggi l’uso terapeutico e anche preventivo dei mAbs in alcune malattie infettive ha ricevuto un recente impulso dalla pandemia da SARS-CoV-2, in quanto la terapia a base di mAbs è stata la prima a posizionarsi come trattamento precoce nelle prime fasi dell’infezione. L’efficacia viene rafforzata da alcune proprietà del farmaco in oggetto, quali la lunga permanenza in circolo ad alte concentrazioni, la diffusione nell’interstizio polmonare e il potenziamento della risposta immunitaria che garantiscono una rapida risposta all’infezione da SARS CoV 2 nei pazienti a rischio di evoluzione».

di Paola Trombetta

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