Convivere con la PKU (fenilchetonuria), una malattia metabolica rara

È la più diffusa fra le malattie metaboliche rare. Questa peculiarità appartiene alla PKU, o fenilchetonuria, una condizione che determina l’incapacità dell’organismo, a causa dell’essenza o della scarsa attività di specifici enzimi, di digerire alimenti proteici, come ad esempio carne, uova, pesce e in misura minore anche alcuni alimenti vegetali, come mais dolce e piselli, in particolare se contenenti fenilalanina (Phe). Si tratta di una malattia “difficile” che impone di cambiare completamente la dieta, ad oggi l’unica terapia che si è dimostrata efficace sul controllo della sintomatologia e sull’evoluzione della PKU. Questo significa rinunciare per tutta la vita, o consumare in misura ridottissima, alcuni alimenti gustosi che contengono questa molecola, come la pasta, i cereali o le patatine fritte. Infatti un accumulo eccessivo nel sangue di Phe può portare a danni neurologici importanti, a causa dell’elevata tossicità della sostanza, esponendo al rischio di sviluppare nel tempo un ritardo neuro-cognitivo, disturbi motori (tremori, mancata coordinazione), disturbi del comportamento e dell’umore (iperattività, aggressività). Quanto sia difficile “supportare” e “sopportare” questa richiesta dietetica lo sanno bene le 4 mila persone che in Italia sono affette da PKU e avvertono le importanti ripercussioni a livello psicologico ed emotivo.

«Le difficoltà maggiori – dichiara Chiara Cazzorla, Psicologa e Psicoterapeuta UOC Malattie Metaboliche Ereditarie – Centro Regionale Screening Neonatale Metabolico, Azienda Ospedaliera di Padova – riguardano soprattutto gli adolescenti e i giovani che facilmente si attengono alla dieta, soprattutto quando escono con gli amici, durante i viaggi e anche le persone professionalmente impegnate nel lavoro». Per fortuna però qualcosa sta cambiando almeno per due motivi: l’introduzione dal 1992 della PKU nel pannello di malattie sottoposte a screening neonatale obbligatorio, consentendone così la diagnosi precoce e l’avvio dei bimbi al corretto percorso di cura, con alcune opportunità terapeutiche di cui può beneficiare una categoria di pazienti. Ad oggi si stima che un nuovo nato su 10 mila in Europa erediti dai genitori (che devono essere entrambi portatori di PKU) la malattia.

La domanda cruciale è: “Si può Vivere bene con la PKU?”. Il quesito è al centro di un’indagine condotta su un campione di 241 tra pazienti e caregiver, realizzata grazie al contributo di BioMarin, con l’obiettivo di identificare gli aspetti più impattanti nella gestione della malattia e le aree in cui i pazienti potrebbero beneficiare di interventi di miglioramento, a favore di maggiore qualità di vita rendendola quanto più “normale” e simile a quella di una persona sana. La risposta? Sì, ci si può convivere, accettando alcune criticità innanzitutto emotive: agitazione/ansia che colpisce quasi metà degli intervistati, stanchezza fisica e sbalzi di umore, difficoltà di attenzione e memoria, mal di testa/cefalea, riferite da circa un terzo dei pazienti o irritabilità e tremori che interessano rispettivamente 1 su 4 e 2 su 10 pazienti. Dall’altro le difficoltà pratiche nel quotidiano, legate all’assunzione dei pasti, a cui si correlano anche i bisogni insoddisfatti dei pazienti che chiedono terapie per poter essere “liberati” dai rigori di una dieta ferrea a vita, di avere un supporto psicologico e agevolazioni burocratiche. Obiettivi che sono al centro della ricerca, soprattutto perché solo il 20% (2 su 10) dei pazienti adulti segue la dieta prescritta, con quanto comporta e i rischi a cui si espone la persona. «Attualmente la terapia primaria per questa malattia rara – spiega Valentina Rovelli, pediatra presso Clinica Pediatrica AO San Paolo – ASST Santi Paolo e Carlo, Università degli Studi di Milano e coordinatrice dell’indagine insieme a Annamaria Dicintio, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale – consiste in un regime alimentare ipoproteico, associato all’integrazione di aminoacidi sintetici e vitamine, spesso sgradevoli al gusto. Questo aspetto e la necessità di mantenere tale regime alimentare a vita, porta alla riduzione dell’aderenza alla dietoterapia, particolarmente nel caso di adolescenti che sfuggono al controllo dei genitori, e dei giovani adulti, aggravio di costi per il paziente e il caregiver, tempo da dedicare ai pasti».

«La complessità della dietoterapia e l’impatto della patologia – prosegue Cazzorla – possono generare, sia nei caregiver che nei pazienti, un significativo disagio emotivo, un importante senso di impotenza e frequenti difficoltà nelle relazioni sociali. È importante, pertanto, strutturare una presa in carico psicologica del paziente e dei familiari, fin dal momento della comunicazione della diagnosi, con un approccio patient-centred, fondamentale nel trattamento di una patologia cronica, per garantire un’efficace relazione terapeutica a lungo termine».

Ma la dietoterapia potrebbe diventare un po’ più “accettabile”? «Nel 20-30% dei pazienti con PKU – aggiunge Rovelli – è possibile associare all’intervento dietetico un supporto farmacologico costituito dal cofattore dell’enzima che non funziona bene nella malattia. Si tratta di una terapia orale, in compresse solubili in acqua o succhi, cosicché il paziente possa ampliare il consumo di cibi contenenti fenilalanina senza un incremento nei valori nel sangue». L’ultima frontiera è però un farmaco approvato dal 2020, rimborsato dal Sistema Sanitario Nazionale in tutte le Regioni, sebbene esistano ancora criticità logistiche, per i pazienti con PKU sopra i 16 anni e con valori non controllati di fenilalanina (superiori a 600), nonostante il trattamento con le opzioni terapeutiche disponibili. «Tale terapia, somministrata per via sottocutanea con siringhe predosate – conclude Rovelli – risulta in grado di ridurre significativamente i valori di fenilalanina, raggiungendo i range raccomandati dalle Linee guida europee, a fronte di un’alimentazione del tutto libera, una volta raggiunta la fase di mantenimento della terapia».

Ma la ricerca non si ferma: si punta a definire una terapia genica che possa essere risolutiva della malattia, agendo sul gene PAH, della fenilalanina idrossilasi, che ne è responsabile.

Maggiori informazioni si possono trovare sul sito internet dedicato www.pku.com/it-it/

di Francesca Morelli

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