Quando la malattia diventa un “dono”: la storia di Anita, trapiantata di fegato

Una vita come tante: una famiglia, una figlia da crescere, il lavoro di maestra d’asilo, genitori in età da accudire e accompagnare nel loro cammino. Anita credeva che questo fosse il suo destino, invece una malattia inaspettata, un’epatite C, cambia quel disegno. Rivoluziona la sua vita e la malattia, da difficoltà e sofferenza, si trasforma in “dono”, in rinascita. Grazie a un trapianto di fegato. A dieci anni da questo evento Anita, oggi Presidente della Delegazione Piemonte e Valle d’Aosta dell’Associazione Italiana Trapiantati di Fegato (AITF), in occasione della Giornata Nazionale per la donazione e il trapianto di organi e tessuti (11 Aprile), si racconta, portando speranza e coraggio a tante persone, come lei, in attesa di un trapianto d’organo e fiducia nella medicina.

Come ha scoperto la sua malattia?
«Tutto è cominciato con fortissime coliche al fegato, seguite da un primo ricovero in ospedale dove mi è stata diagnosticata una cirrosi epatica causata dal virus dell’epatite C, subito curata presso il Centro Trapianto delle Molinette di Torino. Una malattia che nel tempo mi ha costretta a lasciare il lavoro e a cambiare vita: non riuscivo più a seguire i bambini, a portare una borsa della spesa o a fare i lavori di casa. Anche le cose più semplici erano diventate insormontabili: si aggiungeva poi il “peso” di frequenti ricoveri per contenere i danni della malattia che ha travolto anche la vita dell’intera famiglia. Essere la “causa” di tante loro rinunce, che hanno sempre fatto per restarmi a fianco, era per me fonte di ulteriore preoccupazione. Tanto più che sapevo di essere destinata a un trapianto di fegato, “arrivato” dopo 4 anni dalla diagnosi».

Come ha reagito alla notizia della malattia e del trapianto?
«Paura, disperazione e rabbia sono state le prime reazioni. Avevo sempre condotto una vita molto regolare e corretta, mai abuso di alcool (sono altresì astemia!) e tanto meno stupefacenti e non riuscivo proprio a capire come avevo potuto contrarre l’epatite. All’epoca, 10 anni fa, l’interferone era l’unica terapia possibile, ma mi fu sconsigliata per le mie condizioni di salute erano compromesse. Così sono stata preparata all’ipotesi del trapianto in modo graduale dagli specialisti, dotati di grande professionalità e umanità, dell’Ambulatorio Trapianti. Grazie all’intervento e alle terapie antivirali, sono riuscita a debellare definitivamente il virus. Ricordo di avere avuto tanta paura pensando alla mia famiglia: una figlia adolescente che avrei potuto non vedere crescere, mio marito con cui condividevo una vita felice, mia mamma di 80 anni, divenuta ancora più fragile dalla recente perdita di mio padre. All’inizio non volevo nemmeno parlare della malattia; poi a poco a poco ho imparato a “digerirla”, fino a farla mia. Ho pensato e capito che non mi potevo rassegnare, al contrario dovevo reagire, combattere e affrontarla come meglio potevo: così mi sono data dei piccoli obiettivi quotidiani, ho continuato a fare domande ai medici, affidandomi totalmente a loro, per poter arrivare preparata al giorno del trapianto».

Cosa ricorda dell’intervento?
«Dopo essere riemersa dal torpore dell’anestesia e dal dolore, ho toccato il mio nuovo fegato, raccomandandogli di andare d’accordo con tutti i “condomini” a lui vicini. Non poteva fare scherzi, insieme avremmo avuto ancora grandi cose da fare. Gli ho confidato quanto fosse importante per me e per la vita che avevo davanti: a 49 anni di prospettive e sogni ne avevo tanti e ancor oggi ho grandissima speranza e fiducia che questo straordinario “dono” ricevuto possa funzionare al meglio e accompagnarmi a lungo. Insieme stiamo bene. Non ho mai temuto il rigetto, ma ho avuto paura che l’organo non arrivasse in tempo o che il trapianto non si potesse fare; mi preoccupava il destino della mia famiglia se non ci fossi stata più».

Se le fosse stato possibile, che cosa avrebbe detto al suo donatore?
«Al mattino quando mi sveglio e alla sera quando mi addormento, ringrazio la persona che mi ha consentito di riprendere una vita normale, di riappropriarmi della mia vita. Ogni volta che riesco a raggiungere un obiettivo importante, metto la mano sul fegato e penso a lui o a lei e lo ringrazio profondamente. Il dono che ho ricevuto è per me il “testimone” che il mio donatore mi ha passato per la staffetta della vita. Dall’anno del trapianto, celebro due compleanni: il giorno in cui sono nata e il giorno il cui ho fatto il trapianto. Il mio secondo compleanno è una data indimenticabile che festeggio con la consapevolezza del grande regalo che ho ricevuto».

Come è cambiata la sua vita da ieri a oggi?
«Dopo sei mesi dal trapianto sono tornata nella mia scuola come volontaria e questo ha sancito un nuovo passaggio alla normalità, assieme alla ripresa degli impegni quotidiani. “Piccolezze” che mi hanno dato una gioia grandissima, pensando che solo poco prima mi erano state negate. In collaborazione con il CRP (Coordinamento Regionale delle donazioni e dei prelievi di organi e tessuti – Piemonte e Valle d’Aosta), la Fondazione D.O.T. (Donazione Organi e Trapianti) e altre associazioni di volontariato, porto la mia testimonianza all’opinione pubblica, in particolare a tanti ragazzi all’interno delle scuole, li invito a valutare la scelta della donazione, una volta maggiorenni, a donare il sangue, un primo passo di aiuto alla vita per qualcun’altro. Sono entrata a far parte dell’Associazione Italiana Trapiantati di Fegato (AITF), oggi sono il presidente della Sezione Piemonte e Valle d’Aosta: come volontaria, accolgo e accompagno i pazienti in lista di attesa di un trapianto, nel loro percorso: spiego loro le implicazioni e il post trapianto, racconto la mia esperienza, li incoraggio. Un “sostegno” che mi ha aiutato molto quando l’ho ricevuto io stessa dall’allora presidente dell’AITF Nazionale. Vedere che lui ce l’aveva fatta, che aveva ripreso la sua normalità – a correre, a sciare – è stato un balsamo sulle mie paure. Dico a questi pazienti di non perdere fiducia, né speranza e andare comunque avanti. La soddisfazione è grande nell’incontrarli di nuovo e sentire che stanno bene: un’emozione che condivido, ogni volta, con il mio donatore, ringraziandolo anche per questo. Rivedere tante persone che tornano alla vita, è bellissimo!».

di Francesca Morelli

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