La gravidanza dopo il tumore al seno: sicura, con la rete di oncofertilità

Sono sempre più numerose le donne che si ammalano di tumore al seno prima dei 40 anni. E rischiano di vedere compromessa la propria fertilità, a causa delle terapie oncologiche. Lo scorso anno, in Italia, sono stati registrati quasi 55 mila nuovi casi di tumore al seno, di cui il 6% in donne under 40, pari a circa 3.300 diagnosi. Oggi con i metodi di preservazione della fertilità, queste donne non devono più rinunciare alla maternità. La gravidanza dopo il tumore al seno è sicura, sia per la mamma che per il bambino. Lo dimostra la metanalisi dei dati di ben 39 studi, che fornisce la casistica più ampia al mondo di giovani donne con pregresso carcinoma mammario e successiva gravidanza. Sono state considerate 114.573 pazienti, di cui 7.500 hanno avuto un figlio. La ricerca, coordinata dalla Breast Unit dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino – Università di Genova, è stata presentata i giorni scorsi al Congresso “Back From San Antonio” (15-16 gennaio) dedicato alle principali novità emerse dal “San Antonio Breast Cancer Symposium”, il più importante convegno internazionale su questa neoplasia, che si è tenuto a dicembre.

«I trattamenti antitumorali, in particolare la chemioterapia, possono compromettere la capacità riproduttiva», puntualizza Lucia Del Mastro, Responsabile della Breast Unit dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova, dove da circa vent’anni è attiva l’Unità funzionale di Oncofertilità. «L’obiettivo dello studio era valutare la frequenza delle gravidanze al termine delle cure oncologiche, la salute dei neonati con le eventuali complicanze durante la gestazione e il parto, e la sicurezza materna in termini di sopravvivenza dopo il cancro. È emerso che non c’è stato un aumento significativo del rischio di malformazioni congenite per il neonato, né di possibili complicazioni legate alla gestazione e al parto. E non si è riscontrato nessun peggioramento della prognosi oncologica per le pazienti, in termini di ripresa della malattia. Gli unici dati evidenziati sono un aumentato rischio di nascite sottopeso (+50%), un ritardo di crescita intrauterina (+16%), di parto pre-termine (+45%) e di cesareo (+14%), rispetto alle gravidanze di donne sane e questo sottolinea l’importanza di seguire le gestanti con pregressa esposizione ai trattamenti oncologici ancora con più attenzione».

«Nel complesso lo studio dimostra che la diagnosi di carcinoma mammario in giovane età non deve implicare la rinuncia al desiderio di maternità, che va discusso sin dal momento della scoperta della malattia, per offrire subito alla donna il percorso di preservazione della fertilità», aggiunge Fabio Puglisi, Direttore Dipartimento di Oncologia Medica dell’IRCCS Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. «La metanalisi ha evidenziato che le pazienti con pregressa diagnosi di carcinoma mammario hanno il 60% di probabilità in meno di diventare madri dopo le cure oncologiche rispetto alla popolazione generale. Il tema della fertilità non è sempre affrontato in maniera adeguata, serve più impegno su questi aspetti che sono parte integrante della valutazione specialistica. Ad oggi solo il 10% delle pazienti oncologiche ricorre alle tecniche di preservazione della fertilità. E ben pochi sono i centri di oncologia associati a quelli di procreazione medicalmente assistita».

«Nel nostro Paese manca ancora la Rete dei Centri di Oncofertilità, per cui il desiderio di diventare madri dopo la malattia continua a essere sottovalutato», sottolinea la professoressa Del Mastro. «La percentuale di coloro che hanno almeno un figlio dopo la diagnosi di carcinoma mammario è tuttora molto bassa: solo il 3% tra le donne di età inferiore a 45 anni e l’8% se si considerano le under 35. Le principali tecniche di preservazione della fertilità nella donna sono costituite dalla crioconservazione, cioè dal congelamento degli ovociti o del tessuto ovarico e dall’utilizzo di farmaci (analoghi LH-RH) per proteggere e mettere a riposo le ovaie durante la chemioterapia. Possono essere applicate alla stessa paziente e hanno un tasso di successo relativamente elevato, con possibilità di concepire un bambino dopo la guarigione tra il 30 e il 50% a seconda dell’età della donna, dei trattamenti chemioterapici ricevuti e del numero di ovociti crioconservati. Il prelievo degli ovociti è eseguito con una sonda ecografica. Quello del tessuto ovarico è più complesso e richiede un intervento in laparoscopia. Il materiale biologico può rimanere crioconservato per anni ed essere utilizzato quando la paziente ha completato le cure oncologiche: solitamente si aspetta almeno un anno dalla fine della chemioterapia e sei mesi dall’interruzione delle terapie antiestrogeniche. Nella nostra esperienza, confermata anche dalla letteratura internazionale, oltre il 90% delle donne accettano il trattamento farmacologico con analoghi LH-RH; solo il 25% si sottopone invece al congelamento di ovociti o di tessuto ovarico. Ci auguriamo che i dati presentati al congresso di San Antonio possano essere uno stimolo ulteriore per istituire la Rete dei centri di oncofertilità e convincere sempre più donne a sottoporsi a queste tecniche».

Il 5-7% dei casi di tumore della mammella è legato a fattori ereditari, il 50% dei quali riferibile proprio a una mutazione dei geni BRCA (circa 2.000 nuove diagnosi in Italia nel 2020). È dimostrato che anche le donne colpite dalla neoplasia e portatrici di questa mutazione possono diventare madri in sicurezza. Finora mancavano dati su questa popolazione e il vuoto è stato colmato da un altro studio internazionale, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Journal of Clinical Oncology”. «La ricerca, coordinata dall’Università di Genova, ha coinvolto 30 centri da tutto il mondo e ha incluso 1.252 donne con carcinoma mammario prima dei 40 anni e mutazione dei geni BRCA», spiega Matteo Lambertini, oncologo medico, ricercatore universitario presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e prima firma dello studio. «Negli oltre 8 anni di follow-up, 195 pazienti hanno avuto una gravidanza dopo il completamento delle cure oncologiche. Lo studio ha dimostrato chiaramente che avere un figlio è sicuro sia per la madre, sia per i neonati. Non è stato osservato alcun peggioramento della prognosi per le pazienti che sono diventate madri. Inoltre, i tassi di complicanze della gravidanza e di anomalie congenite sono sovrapponibili a quelli della popolazione generale. Questi risultati hanno importanti implicazioni cliniche, perché permettono di restituire la speranza della maternità dopo le cure oncologiche a queste giovani donne con mutazione BRCA e rappresentano un importante passo avanti in oncologia per rendere la vita dopo la malattia sempre più libera, non solo dal cancro, ma anche dalle sue possibili complicanze».

di Paola Trombetta 

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