Donne maltrattate: più aiuti ai centri antiviolenza

L’appello è per tutte. “Non una di meno”. Il prossimo 26 novembre a Roma (alle 14, in piazza della Repubblica) ci sarà una grande – speriamo grandissima – manifestazione, contro la violenza maschile sulle donne indetta dalla rete D.iRE (Donne in Rete contro la violenza), dall’UDI e da Io Decido. Un appuntamento per ricordare le vittime di femminicidi e di aggressioni, ma anche per rivendicare diritti e libertà di scelta. Sensibilizzare e denunciare discriminazioni sessiste nella vita quotidiana, come sul lavoro o nell’istruzione. I dati (Istat) sono allarmanti: sono 6 milioni 743mila le donne tra i 16 e i 70 che hanno subito almeno una violenza nel corso della vita e nella stragrande maggioranza per mano di uomini conosciuti, partner o ex mariti.
Ad oggi le donne uccise nel 2016 sono 108. Sì, anche quest’anno, di fronte al ripetersi senza sosta di violenze e omicidi di donne da parte di uomini, spesso mariti compagni fidanzati, ci chiediamo cosa stiano facendo le istituzioni per affrontare questa tragedia. Se ci siano stati passi in avanti. Ne parliamo con l’avvocata Titti Carrano, presidente di D.iRE: l’associazione riunisce 77 centri antiviolenza che ogni anno aprono le porte a 15mila donne italiane e straniere in cerca di aiuto. Sempre sul filo del rasoio, allo stremo per mancanza di fondi, chiudono oppure sopravvivono con mille problemi grazie all’impegno delle volontarie.

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Titti Carrano

Dove vanno le donne quando subiscono violenza?
«In molti casi da nessuna parte. Spesso occorrono anni prima che si decidano a chiedere aiuto. Tendono a chiudersi, isolarsi, perdono la propria libertà e la fiducia in se stesse, si sentono sbagliate, inadeguate, sviluppano un senso di colpa, istigato dal loro aguzzino. Ecco perché è fondamentale l’esistenza e il potenziamento dei centri antiviolenza, che costituiscono il primo punto di contatto e di ascolto (anche telefonico). Molti centri invece hanno dovuto tagliare i posti letto, le attività, l’accoglienza e il prezzo lo pagano le donne. Sono anni che lo denunciamo: i soldi pubblici sono pochi e le Regioni non li spendono o non dicono dove li usano. Di trasparenza nella distribuzione dei fondi ce n’è poca. E adesso a dirlo è anche la Corte dei Conti. La lunga relazione della Corte dei Conti del 5 settembre analizza in maniera puntuale l’utilizzo delle risorse finanziarie per l’assistenza alle donne vittime di violenza, e ha bollato come “del tutto insoddisfacente” la gestione delle risorse assegnate alle Regioni per gli anni 2013-2014».

Gli appelli alle istituzioni non sono stati ascoltati?
«Ci aspettavamo, soprattutto dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul, un cambio di rotta da parte del governo. Si sancisce il principio, ma non lo si difende nelle prassi; questo è il vero nodo da sciogliere. Il tanto declamato Piano nazionale Antiviolenza è fermo in chissà quale cassetto di chissà quale palazzo romano. Speravamo in un confronto con la ministra Maria Elena Boschi quando a maggio ha assunto le deleghe per le pari opportunità. Partendo da due domande facili: perché i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono stati corrisposti solo in piccola parte, mentre i 19 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati?».

Dove sono finiti i soldi stanziati?
«Sono le regioni a stanziare questi fondi, è loro la competenza. Ma non tutte hanno impiegato queste somme. E’ ancora la Corte dei Conti a denunciare la mancata collaborazione prestata dalle regioni circa la comunicazione dell’effettivo impiego delle risorse. La bocciatura riguarda più o meno tutte le Regioni. Dei 16.449,385 euro assegnati alle Regioni, un terzo è stato riservato all’istituzione di nuovi centri antiviolenza e case rifugio. I restanti due terzi sono stati così suddivisi: 80% al finanziamento aggiuntivo degli interventi regionali già operativi. Solo il 20% a centri antiviolenza e case rifugio. Come dire, briciole: in media 5.862,28 euro l’anno; ad ogni casa rifugio 6.720,18. Sono cifre inadeguate a sostenere le attività a ribadirlo è ancora la Corte dei Conti, che non risparmia le bacchettate neppure al Dipartimento pari opportunità e invita la ministra Boschi a imprimere un’accelerazione all’intero sistema».

Cosa vi preoccupa?
«Bisogna costruire, di più e meglio, una rete che protegge e accoglie la vittima prima e dopo la violenza. Ma non ci si può improvvisare centro antiviolenza. Finché non sono arrivati i fondi della legge sul femminicidio del 2013, eravamo in pochi a difendere le donne maltrattate. Dopodiché, sportelli, centri e iniziative di ogni tipo, corsi volanti di formazione sono spuntati come i funghi, negli ultimi anni è nato un vero e proprio business, molto italiano: tutti a intercettare i fondi regionali o nazionali. Un aspetto preoccupante, perché si rischia di erogare risorse a strutture non direttamente competenti, a scapito dei centri antiviolenza presenti sul territorio».

Cosa distingue i centri anti-violenza tra tante altre strutture di assistenza? Qual è il loro valore aggiunto?
«Questi luoghi sono un percorso di libertà che porta a riprendere in mano la propria esistenza. Un luogo in cui le donne che subiscono violenza trovano uno spazio di ascolto non giudicante, di condivisione e di sostegno. Nel rispetto della segretezza e dell’anonimato. A questa segretezza la rete dei centri antiviolenza non è disposta a rinunciare, non compilando i dati delle donne ospitate che le Regioni ci chiedono. Lo staff è tutto femminile: avvocate, psicologhe, assistenti sociali, educatrici, counselor, mediatrici culturali, sociologhe. Lo scopo del nostro lavoro è  quello di aiutare la donna affinché possa ritrovare il coraggio e la forza per costruirsi un progetto di vita futura concreto che tuteli se stessa e suoi figli. Un altro importante servizio è anche  la ricerca di soluzioni lavorative, affinché le donne possano diventare autonome economicamente. E soluzioni abitative: perché dopo aver denunciato il partner violento sanno di essere a maggior rischio».

Un camper della Polizia trasformato in centro di ascolto e raccolta di eventuali denunce. Sta girando dallo scorso luglio per 14 province italiane. Cosa pensa dell’iniziativa del ministero dell’Interno? 
«Ma lei ce la vede una donna maltrattata che sale sul camper della polizia nella piazza del paese dove tutti la vedono e che va parlare con uno psicologo? Vorrei ricordare che il momento in cui una donna arriva a denunciare la violenza subìta è proprio quello più difficile e pericoloso. Molte sono costrette a continuare a vivere sotto lo stesso tetto con il denunciante, in assenza di provvedimenti di tutela immediata. Meglio sarebbero centri in ogni quartiere, o anche camper, gestiti però da donne e non dalle istituzioni, a cui ci si possa rivolgere con discrezione per parlare di sé, per ottenere ascolto e un primo orientamento ».

Cosa si deve fare ancora, in Italia, per aiutare le donne oggetto di violenza? 
«I fronti su cui combattere sono tanti. Le indicazioni contenute in quella straordinaria piattaforma di progettazione sociale che è la Convenzione di Istanbul sono fondamentali. In una parola: eliminazione delle discriminazioni di genere. Punti che coinvolgono la famiglia, la scuola, i media, il lavoro. Serve un cambiamento culturale forte, che abbia come base soprattutto il coinvolgimento e la consapevolezza degli uomini. La violenza sulle donne non succede una volta ogni tanto, ha invece profonde radici culturali, è il retaggio di una società patriarcale in cui il potere tra i sessi è fortemente sbilanciato nelle mani degli uomini e in cui le donne sono in condizione di subordinazione e dipendenza, anche economica. Servono programmi di educazione e prevenzione nelle scuole. Perché una ragazzina di 16 anni, dopo essere stata vittima di violenze e abusi per tre anni, si è sentita dire che “se l’è cercata”? Occorre agire sugli stereotipi di genere già presenti nei preadolescenti. Sensibilizzare sui temi dell’affettività, del rispetto e del benessere all’interno delle relazioni affettive. Quando parliamo con le ragazze nelle scuole, cerchiamo di fare loro capire che anche frasi come: “A me non va che esci con le amiche!”, “dove vai e con chi?”, dovrebbero far riflettere. Questi segnali sono importanti. Per il momento quello che si fa nelle scuole è affidato essenzialmente alla sensibilità del dirigente scolastico e dei singoli insegnanti. I progetti di educazione alla parità promessi dal ministero dell’Istruzione non sono mai partiti».

Il fattore economico e dunque il diritto al lavoro, è centrale: lo ha sottolineato anche la Presidente Laura Boldrini…
«Sappiamo bene che le donne molto spesso non denunciano perché non sono poi nelle condizioni di avviare un percorso di autonomia, anche economica. Non è un caso, viceversa, che la maggior parte delle vittime di violenza siano donne che cercano, anche attraverso il lavoro, di percorrere la faticosa strada dell’indipendenza, a fronte di uomini incapaci di accettare scelte di autodeterminazione delle donne».

Altro fronte caldo?
«Bisogna lavorare di più anche sulla qualità dell’informazione: parlare di “dramma della gelosia”, di “delitto passionale”, significa rendersi ideologicamente complici dei femminicidi. E’ importante non dare mai una giustificazione alla violenza e smetterla con la consuetudine di scavare nella vita delle vittime e mai sui colpevoli. Ho visto nei tribunali troppe volte confondere la violenza con il conflitto perché due coniugi si stavano separando. Questo “equivoco” mette ulteriormente a rischio la vita delle donne. Ma sia chiaro: la violenza maschile sulle donne è un problema degli uomini. Sarebbe dunque importante che a interrogarsi fossero anche e soprattutto gli uomini. Quanto alla partecipazione del genere maschile alla soluzione del problema, al momento esiste una sola associazione di uomini che collabora, Maschile Plurale (www.maschileplurale.it). Su questi temi il nostro paese può e deve fare di più: se lo meritano le ragazze, le donne e i ragazzi e gli uomini amici delle donne».

Per info: Di.Re Donne in Rete contro la violenza
Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 – 00165 Roma
Tel 06 68892502 – Email direcontrolaviolenza@women.it; www.direcontrolaviolenza.it

di Cristina Tirinzoni

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