INFERTILITÀ: IL 50% DELLE DONNE LA CONSIDERA UNA GRAVE MALATTIA

«C’è voluto un anno per capire che non bastavano i consigli, i memo sul calendario e post-it colorati attaccati al frigorifero, le vacanze per rilassarsi, le posizioni acrobatiche facilitatrici. Un anno per capire che alla fine non bastavamo noi per generare un figlio! Me lo sono sentita dire a 35 anni che avevo probabilità pressoché nulle di avere un figlio naturalmente. Lo ha fatto un ginecologo in uno studio completamente bianco, dove mi sembrava di sentire l’eco di numeri e statistiche. Ho sentito la mano di Simone sulla mia, quel suo “non preoccuparti, andrà tutto bene, ci penso io a te” che passa dal calore del suo palmo e mi si tuffa dritto nell’anima. L’ho guardato e, per la prima volta da quando mi sta accanto, ho pensato “questa volta tu non puoi farci nulla”. Abbiamo iniziato così il percorso di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita). Nove prescrizioni: sei per me e tre per Simone. Esami del sangue, indagini genetiche, visite più o meno invasive, test con nomi impronunciabili. E poi monitoraggi, costanti, cadenzati, altri post-it al frigorifero, altre memo nel calendario. Alla fine sono arrivati i farmaci, quelli che appena comprati devi buttare il bugiardino nel cestino per non fare un passo indietro. Quelli che ti ripeti “è per un buon motivo, poi faccio sport e mi disintossico” e giù un’altra pillola. Le punture di ormoni nella pancia arrivano verso la fine: la prima me l’ha fatta Nico, non perché è infermiera, ma perché di lei avevo bisogno. E non solo per capire che l’ago lo devi infilare di sbieco. Alla terza sono riuscita a non fare uscire più il sangue e sono diventata brava. Ho portato a termine sei PMA. Gli embrioni erano sempre buoni, reattivi, pieni di speranza, proprio come noi, dalla prima alla sesta. Nessuna di queste è diventata una gravidanza. Dal giorno dell’impianto degli embrioni al test di gravidanza passano due settimane. In mezzo a uno spazio di vita così breve ci sono emozioni che io credo non si possano nemmeno raccontare. O forse non riesco a raccontarle io. Non riesco a farlo oggi, oggi che a muso duro affronto la mia sesta sconfitta».
Ma l’autrice anonima di questa testimonianza, alla fine ha avuto il coraggio di parlare di questa sua dolorosa esperienza. E lo ha fatto attraverso il sito: www.parolefertili.it, un nuovo progetto di storytelling, promosso da IBSA, dedicato alla condivisione di storie che hanno un comune denominatore: la ricerca di un figlio.

Secondo uno studio pubblicato sull’Hasting Centre Report, il 50% delle donne e il 15% degli uomini considerano l’infertilità l’evento più grave della loro vita. Le donne infertili in particolare presentano un quadro psicologico sovrapponibile alle pazienti affette da tumore. «La difficoltà o l’impossibilità a generare è vissuta come un tabù. Non riuscire a realizzare il desiderio di maternità/paternità è vissuto con colpa, dolore, frustrazione, invidia, emozioni difficilmente comunicabili», spiega Cristina Cenci, antropologa, fondatrice del Center for Digital Health Humanities. «Spesso lo spazio digitale consente di uscire dalla solitudine, offre un’intimità anonima che facilita l’espressione e la condivisione del vissuto di infertilità. Uno spazio online in cui raccontarsi senza filtri, aperto a tutte le storie, anche le più difficili. Molte donne scrivono, ma molte di più sono quelle che leggono le storie di altre. Al momento tra le nostre storie il grande assente è l’uomo, intrappolato in un silenzio che nasce dal rifiuto del fallimento, che spesso porta anche al rifiuto della diagnosi. La sfida che le storie pubblicate finora ci lanciano è quella di trasformare la PMA in un percorso più personalizzato e meno artificiale. Oggi è infatti vissuto con un senso di grande estraneità e molta sofferenza, anche quando l’esito è positivo».  L’infertilità è una malattia vera e propria riconosciuta nel 2013 dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e come tale è il diritto universale ad accedere alle cure a prescindere da razza, nazionalità o religione.
«Dal 2004, anno di promulgazione della legge 40, molti passi avanti sono stati fatti nel nostro Paese: oggi molte strutture possono offrire terapie tecnologicamente avanzate e con l’ingresso della procreazione medicalmente assistita (PMA) nei LEA, l’infertilità è riconosciuta a tutti gli effetti come una malattia», spiega Andrea Borini, presidente della Società Italiana di Fertilità e Sterilità, SIFES e MR. «I limiti di età e il numero di tentativi (cicli di PMA) sono trattati solo in termini di scelte di politica sanitaria. Il SSN pone dei limiti alle prestazioni di PMA, ma l’esperienza clinica ci dice che ciò che non è avvenuto in 3 cicli può succedere in quelli successivi e più tentativi corrispondono a maggiori possibilità di successo. Gli studi che hanno portato a limitare a tre i cicli della PMA sono stati smentiti da altri dati. Alla coppia, bisognerebbe dare la possibilità di tentare protocolli e terapie diverse, per aumentare le motivazioni a ripetere i cicli di PMA», conclude Borini. Ma si evidenzia anche un altro ostacolo, ancora più subdolo: la paura, lo stress, l’essere messi ogni volta di fronte alle proprie difficoltà porta quasi il 50% delle coppie ad abbandonare il percorso di procreazione medicalmente assistita, prima del termine dei cicli previsti.
«La difficoltà riproduttiva ha molte sfaccettature: ormonali, meccaniche, infettive e immunitarie. Non esiste una fertilità della donna o dell’uomo, a meno di patologie molto severe: esiste piuttosto una sterilità di coppia», puntualizza Rossella Nappi, professore associato all’Università degli Studi di Pavia e responsabile del Centro di Ricerca per la Procreazione Medicalmente Assistita della Clinica Ostetrica e Ginecologica del San Matteo di Pavia. «Ad oggi le terapie per l’infertilità sono sempre più personalizzate. Gli ormoni, spesso demonizzati e associati erroneamente a conseguenze negative per la salute non causano tumori ma, in taluni casi, addirittura li prevengono. La procreazione medicalmente assistita rappresenta un’area delicata e la richiesta delle donne è sempre più rivolta a prodotti efficaci e, allo stesso tempo naturali e ben tollerati. Il progetto IBSA/ PMA intende promuovere una nuova generazione di ormoni di derivazione umana che assomigliano alle specie molecolari prodotte naturalmente. Ne è un esempio il farmaco utilizzato per la supplementazione della fase luteale nella procreazione medicalmente assistita e nei cicli di ovodonazione, così come le gonadotropine, utilizzate nella stimolazione ovarica, che mimano il modello fisiologico del reclutamento follicolare».
«Nella procreazione medicalmente assistita (PMA) non va dimenticato il ruolo centrale del maschio, spesso misconosciuto, “schiacciato” dalla preponderanza del ruolo femminile», fa notare Andrea Salonia, professore Associato di Urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele, Divisione di Oncologia Sperimentale, Unità di Urologia, IRCCS Ospedale San Raffaele. «Anche il maschio, infatti, è attore fondamentale del percorso di PMA, meritevole di un’attenta valutazione diagnostica, e di un’adeguata terapia,  comprendendo nei casi specifici una supplementazione ormonale, capace di aumentare le possibilità di successo. Alcuni ormoni follicolo-stimolanti, utilizzati per l’induzione della spermatogenesi, in associazione alla gonadotropina corionica umana, hanno infatti raggiunto ottimi risultati».
Ma quante sono in Italia le coppie che si sono rivolte in questi anni alla PMA nel nostro Paese? «Solo nel 2014 le coppie che hanno fatto ricorso alle tecniche di PMA sono state 70.826 per un totale di 16.041 gravidanze e 12.720 bambini nati», afferma Giulia Scaravelli, ginecologa, responsabile del Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto Superiore di Sanità. «Il Registro censisce le strutture autorizzate ad applicare le tecniche di PMA, raccoglie annualmente i dati sui cicli di trattamento, sulle gravidanze ottenute e sui bambini nati e delinea il quadro epidemiologico della loro efficacia. In Italia l’accesso alle tecniche e la loro offerta sono migliorate negli anni, tanto è che il 2,5 % dei bambini in Italia sono nati grazie all’applicazione di tecniche di PMA e che l’offerta dei cicli per milione di abitanti è paragonabile a quella europea (1.102 in Italia e 1.253 in Europa). L’elemento preoccupante è il progressivo aumento dell’età media delle donne che fanno ricorso a PMA, dai 35,3 anni del 2005 ai 36,7 del 2014. Dai dati raccolti emerge che un ricorso alla PMA in età più precoce porta a una percentuale maggiore di successi. Purtroppo oggi le coppie si rivolgono alla PMA in età sempre più avanzata, con rischi di insuccessi destinati perciò ad aumentare».

di Paola Trombetta

DIVENTARE MAMME DOPO UN TUMORE

Diventare mamme e papà dopo aver vinto il tumore: è una possibilità sempre più concreta (anche se non abbastanza conosciuta) grazie alle iniziative del mondo scientifico e istituzionale. E’ quanto emerge dal recente convegno di Sabaudia “Giornate di andrologia e medicina della riproduzione”, promosso dai professori Rocco Rago, direttore del centro di PMA dell’ospedale romano Sandro Pertini e Andrea Lenzi, presidente della Società Italiana di Endocrinologia. Al centro del dibattito due dati significativi: da un lato l’accordo fra il centro di sterilità dell’Ospedale Pertini di Roma e la Banca del Tessuto ovarico dell’Istituto Nazionale Tumori (IFO) coordinata dal professor Enrico Vizza che, aggiunto alla già collaudata collaborazione con la banca del seme del Policlinico Umberto I diretto dal professor Andrea Lenzi, chiude il cerchio di un vero polo di eccellenza per la preservazione della fertilità femminile e maschile nel Lazio. Dall’altra il primo censimento dell’Istituto Superiore di Sanità su 201 centri di PMA di II e III livello, da cui risultano essere 14 i centri che dispongono di unità specificamente dedicate alla preservazione della fertilità nei pazienti oncologici. E si  tratta di centri prevalentemente pubblici e abbastanza distribuiti su tutto il territorio nazionale: al Nord, a Milano (Istituto San Raffaele, Humanitas di Rozzano, Mangiagalli); Pavia (Policlinico San Matteo); Torino (S. Anna); Genova (S. Martino); Pordenone (S. Maria degli Angeli); al centro Reggio Emilia (S. Maria Nuova); Bologna (S. Orsola Malpighi); Pisa (Pisana); Roma (Pertini). Al Sud Napoli (Federico II), Avellino (Moscati), Bari (Policlinico) e Palermo (Clinica Candela CBR).

«A prescindere dal numero, il Paese ha bisogno di individuare le specifiche competenze e le eccellenze sul territorio per dare vita a una vera e propria rete di centri di Oncofertilità che rispondano a precisi requisiti organizzativi, tecnologici, di qualità e di sicurezza – ha dichiarato Rocco Rago, commentando i dati del censimento. Questi Centri devono essere situati all’interno di una struttura pubblica e, per quanto concerne il prelievo ovocitario, devono essere inseriti all’interno delle strutture di procreazione medicalmente assistita, dove già operano staff di medici e biologi di comprovata esperienza e specifica competenza. Occorre quindi avviare un confronto costruttivo tra operatori e istituzioni sanitarie, ma anche facilitare e migliorare il livello di comunicazione e lo scambio di informazioni tra i centri specialistici dislocati sul territorio, per permettere agli oncologi di indirizzare i pazienti al centro di Oncofertilità a loro più vicino e più indicato per le specifiche esigenze».

di Marilisa Zito

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