Vulvodinia: poco riconosciuta e non curata

Difficile da diagnosticare, la vulvodinia, una sindrome cronica dolorosa ancora poco riconosciuta, interessa almeno una donna su sette e compromette molti aspetti della vita quotidiana, soprattutto la propria intimità. Nonostante l’impatto invalidante, la patologia non è ancora inserita nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e molte pazienti raccontano anni di diagnosi mancate, in media 4/5, prima di un riconoscimento clinico.

Per approfondire la conoscenza di questa malattia, della possibilità di diagnosticarla precocemente e di poterla curare con successo, in occasione della Giornata dedicata alla Vulvodinia (11 novembre) abbiamo intervistato la dottoressa Maria Teresa Schettino, Referente Ambulatorio Vulvodinia/Dolore Pelvico Cronico AOU (Azienda Ospedaliera Universitaria) Vanvitelli – Università della Campania Luigi Vanvitelli, intervenuta al Congresso che si è svolto in Senato “Vulvodinia day: diamo voce al silenzio”.

Cerchiamo di inquadrare la malattia: quanto è diffusa, quali sono i sintomi principali che la caratterizzano?
«La vulvodinia colpisce circa 4 milioni di donne: è caratterizzata da dolore vulvare e pelvico con caratteristiche variabili (continuo, intermittente, bruciore, punture di spilli), da almeno 3-6 mesi, in assenza di reperti visibili o di uno specifico disordine neurologico identificabile. La forma localizzata al vestibolo vulvare, vestibolodinia, è la più frequente, come pure la clitoridodinia, quando il dolore si localizza a livello del clitoride».

Quali fattori ne favoriscono l’insorgenza: predisposizione genetica familiarità o altro?
«È ormai riconosciuto il ruolo delle infezioni ricorrenti (vaginosi/vaginiti/cistiti) come dell’IBS (Sindrome dell’Intestino Irritabile) nell’innesco dei processi neuroinfiammatori e del rimodellamento tissutale che predispongono alle alterazioni di conduzione degli impulsi nervosi, inducendo fenomeni responsabili della comparsa di sintomi da dolore nociplastico. Nello specifico fenomeni quale amplificazione, con comparsa di dolore in seguito ad uno stimolo tattile non doloroso (iperalgesia) e comparsa di dolore in assenza di stimolo nocivo (allodinia). La predisposizione genetica rappresenta oggi uno degli argomenti più dibattuti e per cui sono in corso molti studi scientifici, dalla presenza di polimorfismi recettoriali ad alterazioni morfo strutturali dei tessuti e delle mucose vulvo perineali».

La vulvodinia è definita una patologia “invisibile”: quali sono le ragioni che limitano la diagnosi precoce? La mancanza di screening dedicati, le manifestazioni sovrapponibili ad altre condizioni?
«Alla luce di quanto sta avvenendo degli ultimi anni, possiamo affermare che la vulvodinia rappresenta una patologia di difficile diagnosi per mancanza di formazione specifica. Si tratta infatti di una malattia, ma è anche l’espressione sintomatologica finale di molte malattie che sottendono il dolore pelvico cronico, quale l’endometriosi, le patologie uro-ginecologiche e miofasciali, e in quanto tale di difficile inquadramento, tanto che la sua diagnosi avviene per esclusione e questo ne rende difficile non solo il suo riconoscimento, ma anche ipotizzare test di screening. Sicuramente è necessario aumentare la formazione per rendere gli addetti ai lavori capaci di riconoscere i fattori predisponenti in modo da interrompere il processo eziopatogenetico che porta alla vulvodinia, ed anche eliminare eventuali fattori di mantenimento della malattia stessa».

Come si cura oggi la vulvodinia?
«La scelta della terapia dipende dalla gravità della malattia, nelle fasi iniziali diversi sono i preparati che ci permettono di agire in maniera naturale sui fenomeni che predispongono al dolore nociplastico: tra queste due sostanze, in particolare broswellia ed acmella che, interferendo con la via delle ciclossigenasi e delle lipossigenasi, riducono l’infiammazione e quindi il dolore e che, grazie all’azione dello spilantolo dell’acmella, prolunga l’effetto del più potente cannabinoide endogeno (anandamide). Nella forma di dolore nociplastico bisogna quasi sempre ricorrere a farmaci che variano dai miorilassanti, agli alfa 2 delta liganti, agli inibitori del reuptake della serotonina, agli ansiolitici, a seconda del quadro clinico che è molto variabile da paziente a paziente. È sempre importante, non solo nelle fasi localizzate e /o lievi, ma anche nelle fasi avanzate, associare prodotti topici che possano favorire la ristrutturazione tissutale come ridurre i mediatori flogistici, dalla spermidina al cannabidiolo, alla broswellia come i ceramidi o l’acido ialuronico, anche in questo caso ovviamente la scelta del prodotto dipenderà dal trofismo vulvare e dalla compartecipazione di più o meno fattori concomitanti».

Oltre le terapie, stili di vita, come cibi antinfiammatori, ginnastica specifica, ad esempio del pavimento pelvico o altre strategie possono aiutare a contenere sintomi e dolore?
«Sicuramente quelli elencati rappresentano le principali strategie per contenere l’evoluzione dei sintomi; in aggiunta specificherei l’importanza di favorire il benessere integrato del microbiota vaginale, vescicale ed intestinale».

Cosa manca oggi alla gestione della vulvodinia: un PDTA dedicato, la formazione del medico, terapie adeguate?
«Manca la formazione: non è ancora prevista per fare un esempio una formazione nelle scuole di specializzazione. È fondamentale creare una rete tra AOU/AO e territorio in modo da favorire la formazione per cercare di giungere a percorsi diagnostici e terapeutici appropriati e condivisi. Sicuramente è necessario strutturare un PDTA (Percoro Diagnostico Terapeutico Assistenziale) dedicato e c’è da dire, a tal proposito, che sia le istituzioni che le società scientifiche sono particolarmente attive sotto questo punto di vista per la stesura sia di protocolli ministeriali che di Linee guida».

Quali consigli di vita pratica possiamo dare a una donna che soffre di vulvodinia?
«Di evitare gli eccessi, ma di concedersi qualsiasi trasgressione di tanto in tanto e di condurre una vita normale. Di vulvodinia si guarisce e questo significa aver raggiunto, grazie a specialisti competenti, una consapevolezza della malattia e del proprio pavimento pelvico tale da riuscire a riconoscere eventuali fattori che possano condurre a recidive ed evitarli».

di Paola Trombetta

“A Voce Alta”, 7 nuovi vodcast per parlarne

Ridare dignità alle donne, fare educazione e (in)formazione, costruire consapevolezza, aprire al dialogo e all’ascolto. Mettere in luce un dolore e una sofferenza invisibili. Sono gli obiettivi di “A Voce Alta”, il nuovo vodcast promosso da Sanitas Farmaceutici, per dare risposte concrete alla vulvodinia, in occasione del Vulvodinia Day (11 novembre). Si tratta di una sindrome cronica dolorosa, poco nota, altamente impattante sulla qualità della vita e sulla quotidianità: azioni semplici come vestirsi, sedersi, lavorare, vivere la propria intimità diventano impossibili, ingestibili. Troppo dolorose. Eppure nonostante queste implicazioni, le diagnosi di vulvodinia sono tardive, mancate o negate: in media 4-5 anni e fino a 10 medici consultati prima di arrivare a riconoscerla. E non è neppure inserita nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e ciò significa che cure e terapie sono tutte a carico della paziente. In Italia soffre di vulvodinia una donna su sette. Il progetto multimediale “A Voce Alta”, che intreccia testimonianze di pazienti, dialoghi con specialisti e riflessioni sulla cura, intende abbattere la barriera di silenzio e disinformazione.

Il progetto si articola in 7 episodi condotti dal farmacologo Livio Luongo e dalla divulgatrice Chiara Natale, che incontrano e dialogano con esperti di rilevanza nazionale su varie tematiche che affrontano la patologia da prospettive mediche, psicologiche e sociali: il ginecologo Filippo Murina, la ginecologa Maria Teresa Schettino, la psicosessuologa Francesca Romana Tiberi, l’ostetrica Micol Macrì, il personal trainer Dario Ghezzi, il reumatologo Alberto Sulli, l’anestesista terapista del dolore e membro del Comitato Tecnico Scientifico (CTS) Consalvo Mattia e il nutrizionista Alessio Fabbricatore. «Finalmente – ha dichiarato Livio Luongo – c’è uno spazio dove pazienti e medici dialogano apertamente su temi che troppo spesso restano confinati nel silenzio o nella vergogna. Il linguaggio della scienza incontra quello dell’esperienza per costruire una nuova consapevolezza collettiva sulla vulvodinia». Il progetto è un importanze mezzo per dare voce, credibilità e solidarietà a migliaia di donne, per far conoscere la patologia in maniera capillare anche attraverso strumenti innovativi, digitali: «La rete – ha concluso Chiara Natale, paziente e co-conduttrice – è diventata un luogo di legittimazione, ma serve l’impegno di tutti, aziende comprese, per dare continuità e rigore a questo cambiamento culturale». È possibile seguire #AVoceAlta su Instagram, YouTube, Tik Tok, Facebook, Sito web Sanitas farmaceutici.  F. M.

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