Oltre 140 mila casi solo in Italia, circa 3.600 nuove diagnosi all’anno, 6 ogni 100 mila persone e dalle 3 alle 6 ogni ora. Sono i numeri importanti della Sclerosi Multipla (SM), una patologia altamente critica per vari fattori: l’età di insorgenza giovanile, con esordio medio a 30 anni, quindi tra i 20 e i 40 anni, periodo in cui la persona costruisce la propria vita, professionale, privata, sociale, familiare; la natura della malattia, neurologica, cronica e imprevedibile: è la prima causa di disabilità neurologica nei giovani adulti dopo i traumi. Aspetti particolarmente cruciali nella donna, in cui la malattia è prevalente con un rapporto che, secondo le fasce di popolazione, varia dai 2,5 casi ai 3,5 rispetto a un solo evento nel maschio, e che potrebbero porre la donna in età fertile di fronte a scelte importanti, come privilegiare la cura della propria malattia rispetto a un progetto di gravidanza. Una “preoccupazione” che l’ingresso di nuovi farmaci e di nuove formulazioni, come ocrelizumab sottocute, ha semplificato la gestione della terapia, migliorando sensibilmente la qualità di vita della paziente.
Ne abbiamo parlato con la professoressa Eleonora Cocco, Direttrice UOC Centro Regionale per la diagnosi e la cura della sclerosi multipla Ospedale Binaghi, ASL Cagliari/Università di Cagliari.
Professoressa Cocco, qual è l’impegno della ricerca e della medicina nei confronti della donna con SM?
«Le attenzioni alla donna con SM sono particolarmente aumentate negli anni, anche in funzione delle nuove opzioni terapeutiche che consentono di trattare la malattia in maniera efficace, grazie soprattutto ai farmaci che modificano il decorso della malattia, dall’inglese Disease-Modifying Therapies (DMT), così definiti poiché sono in grado di cambiarne la storia naturale e fornire risposte anche a quesiti importanti per la donna, come ad esempio: “Posso formare una famiglia?”, “Posso concepire?”, “Il farmaco impatterà sulla mia fertilità?”, “Devo dare priorità alla cura e al trattamento della SM o posso pensare anche a una famiglia?”, “Quando? E con quali ricadute per me e per il bambino?”. Quesiti importanti che pongono la donna di fronte a un bivio decisionale, in alcuni casi con la necessità di scegliere, in altri dando risposte sicure ai suoi quesiti, dimostrati da studi di letteratura. Infatti la Comunità internazionale, e in particolare la comunità italiana che ha una forte componente femminile, negli ultimi 10-15 anni, hanno focalizzato l’attenzione sugli aspetti della maternità e le implicazioni correlate fornendo dati tranquillizzanti, che confermano la possibilità per la donna di concepire, senza rischi, programmando la maternità con il medico e sotto stretto monitoraggio, anche in corso di trattamento con specifici farmaci. Inizialmente con Interferone beta, una proteina immunomodulatoria usata principalmente per trattare la SM recidivante-remittente o glatiramer acetato, anche questo impiegato in forme recidivanti di malattia e successivamente anche con altre terapie, come natalizumab, un anticorpo monoclonale di alta efficacia, e ultimamente ocrelizumab, uno dei farmaci di largo uso, i cui dati molto interessanti sostengono la possibilità di una gravidanza in sicurezza».
Come agisce questa nuova molecola?
<Per le donne con SM che desiderano affrontare una gravidanza, ocrelizumab rappresenta un’ importante opzione di cura ad alta efficacia. Grazie alla sua attività immunomodulatoria prolungata e alla bassa probabilità di trasferimento placentare durante il primo trimestre, la terapia consente di mantenere un efficace controllo della malattia anche nel periodo pre-concepimento, riducendo al minimo i rischi per madre e bambino. Le evidenze scientifiche disponibili mostrano che l’esposizione in utero o attraverso il latte materno, non è associata a un aumento del rischio di esiti avversi di gravidanza, né a effetti negativi sui livelli di cellule B nei neonati, permettendo l’utilizzo del farmaco anche durante l’allattamento a partire da pochi giorni dopo il parto. Ciò consente alle pazienti di affrontare con maggiore serenità la maternità, conciliando il desiderio di famiglia con la necessità di mantenere un adeguato controllo della patologia>.
Quali altri vantaggi si associano a ocrelizumab?
«Sono molti, sia clinici che pratici. La nuova modalità di trattamento sottocute, approvata da AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) lo scorso giugno, molto più maneggevole rispetto alla somministrazione tradizionale per infusione endovenosa, consente di ottimizzare tempi e risorse, sia della struttura e degli operatori sanitari, in quanto la somministrazione in Day Hospital garantisce sicurezza clinica, un monitoraggio costante e una migliore aderenza terapeutica, per il paziente. La terapia sottocute richiede, infatti, pochi minuti dalla somministrazione all’erogazione – all’incirca una decina – e ha una cadenza semestrale. Questo significa che il paziente è “libero” dalla terapia per un lungo intervallo, dimenticandosi della propria condizione, impattando in misura molto minore sulla vita quotidiana dei pazienti e dei caregiver, migliorando la gestione della patologia».
Quando per la donna è possibile programmare una gravidanza?
«Anche in corso di trattamento. Inizialmente era necessario attendere circa 6-12 mesi prima di cercare una gravidanza: i nuovi dati presentati ai vari congressi e pubblicati di recente, che si riferiscono a oltre 4 mila gravidanze, quindi in donne in terapia con ocrelizumab in cui il concepimento è avvenuto a 3-6 mesi dall’inizio del trattamento, confrontate con gravidanze non esposte alla terapia, mostrano che non vi è pericolo né per la mamma di incappare ad esempio in aborti spontanei o parti pretermine, né per il feto di manifestare eventuali malformazioni o la comparsa di alcuni elementi nel sangue come linfociti T o immunoglobuline. Questi dati sono resi più rilevanti dall’evidenza che la mamma può allattare al seno con tranquillità. Ciò significa per la donna una qualità di vita straordinaria, che conforta anche il clinico nella gestione della malattia, non dovendo affrontare problemi delicati».
Queste opportunità valgono per tutti i farmaci?
«No, ad esempio le primissime terapie, qualora impiegate, richiedono la sospensione del trattamento alla scoperta della gravidanza; altre, tra cui le più “innovative”, possono essere continuate per nove mesi, con interruzione solo nel periodo del parto, ed essere riprese nell’immediato post-partum. Ad esempio Natalizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato utilizzato in alcune forme di SM, se viene sospeso, espone al rischio che la malattia possa progredire in gravidanza: un evento raro, che normalmente non avviene nella storia della malattia. La gravidanza in donne con SM è, infatti, un “momento d’oro”, che blocca l’evoluzione della patologia stessa, perché il sistema immunitario proietta tutta l’attenzione nel proteggere il bambino e “trascura” la malattia che resta quindi silente per un certo tempo: pertanto in modo indiretto viene protetta anche la mamma in cui si osserva un rallentamento della condizione. Con alcuni farmaci questo “stato dell’arte” non si verifica e devono essere continuati con regolarità anche in gravidanza per evitare la riacutizzazione».
Quale sarà il futuro della ricerca sulla SM?
«I progetti in corso sono molti, orientatati ad esempio a identificare eventuali modalità per prevenire la malattia, grazie alla migliore comprensione dei fattori scatenanti o alla diagnosi precoce e al trattamento. Questo perché non tutte le persone rispondono in maniera uguale alle medesime terapie, determinando la necessità di avere sempre nuove molecole e opzioni di cura. Inoltre, si sta potenziando la ricerca sugli stili di vita, ovvero sulla possibilità di incidere sulla malattia correggendo alcuni comportamenti come il fumo, la dieta, l’attività motoria, ovvero agendo sui fattori modificabili che non sono un corollario alla malattia, ma che possono influenzarne lo sviluppo, supportando anche l’efficacia delle terapie farmacologiche».
di Francesca Morelli