È basso il livello di guardia, anche da parte delle donne, verso il tumore del colon-retto. Erroneamente. «Si tratta infatti di una malattia frequente anche nella popolazione femminile – spiega Sara Lonardi, Direttore UOC di Oncologia 1 presso l’Istituto Oncologico Veneto IOV, IRCCS di Padova – che si posiziona al terzo posto dopo il tumore della mammella e del polmone, ma che rispetto all’uomo ha una insorgenza più tardiva, mediamente di circa 5 anni. Il tumore del colon-retto resta ad oggi uno dei maggiori big killer per frequenza e mortalità in entrambi i sessi, su cui tuttavia è possibile fare prevenzione primaria, quindi con l’adozione e la correzione degli stili di vita e con l’adesione alle campagne di screening». Strumenti a basso costo, ma di alta efficacia: infatti una dieta corretta ad alto contenuto vegetale, di frutta e verdura, e a basso apporto di alimenti animali, carne rossa soprattutto, l’astensione dal fumo, il controllo del peso, in quanto sovrappeso e obesità, che rappresentano un importante fattore di rischio per questo tipo di tumore, la pratica di attività fisica costante, settimanale, non solo permettono di prevenire lo sviluppo del tumore del colon-retto, ma anche di “controllare” la successiva malattia metastatica, se dovesse manifestarsi.
«Mentre lo screening – prosegue la dottoressa Lonardi – quindi l’adesione su chiamata da parte della ASL, attiva su quasi tutto il territorio nazionale, ad eseguire a partire dai 50 anni, indipendentemente dal sesso, un esame per la ricerca di sangue occulto nelle feci e qualora positivo un approfondimento diagnostico con una colonscopia, favorisce la diagnosi precoce. Questo significa poter intervenire tempestivamente su lesioni ancora benigne, come i polipi che nel tempo potrebbero evolvere verso un tumore, o di meglio trattare, perché in forma iniziale, lesioni già tumorali con la chirurgia associata alle immunoterapie e/o ad altre soluzioni tra cui la radioterapia. Ad oggi, purtroppo, circa il 25% dei pazienti manifesta ancora una malattia avanzata, che lo diventa nel tempo; in questi casi la guarigione è più difficile ma le terapie attuali consentono di controllare la malattia più a lungo e con buoni esiti anche in termine di sopravvivenza e qualità di vita». La raccomandazione è fare attenzione ai sintomi, peraltro spesso aspecifici e sovrapponibili ad altre patologie, come la presenza di sangue nelle feci, cambiamenti dell’alvo per più di sei settimane, perdita di peso, dolore addominale o anale, sensazione di svuotamento incompleto dell’intestino dopo evacuazione, spossatezza. In caso di comparsa di questi segnali è decisivo recarsi tempestivamente dal medico per un controllo.
«Le donne, in particolare – sottolinea Stefania Gori, Direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica presso l’IRCCS Ospedale Sacro Cuore-Don Calabria di Negrar (VR) e Presidente ROPI (Rete Oncologica Pazienti Italia) – devono mantenere il più possibile stili di vita adeguati: evitare di ingrassare soprattutto in menopausa e in caso di familiarità con problematiche a utero e colon o a specifiche sindromi genetiche, tra cui quella di Lynch, che espongono a maggiori probabilità di manifestazione della malattia; “ascoltare” i primi sintomi senza avere timore di rivolgersi tempestivamente a centri oncologici con alta expertise, cioè strutture che abbiano al proprio interno tutte le specialità per potere effettuare un approccio diagnostico-terapeutico multidisciplinare alla malattia, e laboratori di biologia molecolare in grado di eseguire analisi accurate e “di precisione” sulla tipologia di tumore. Queste “qualità” consentono al paziente di ricevere cure mirate e appropriate alla natura del tumore del colon-retto, anche metastatico, di cui sono affetti, quindi più efficaci. ROPI, con questo obiettivo, ha istituito sul proprio portale (https://www.reteoncologicaropi.it/606-2/) lo sportello/servizio “Dove mi curo”, uno strumento che consente di identificare regione per regione i centri oncologici, che secondo la tipologia di tumore, trattano il maggiore numero di pazienti: una “garanzia” per ricevere un’offerta di cura di qualità, innovativa e multidisciplinare». La presa in carico olistica del paziente, quindi di sé, del contesto familiare e dei care-giver, la proposta di trattamenti che prevedano un approccio integrato, quindi non solo farmacologico, ma che tenga presente anche gli aspetti nutrizionali e psicologici, o di cure palliative integrate simultanee, è fondamentale nel processo di accompagnamento del paziente.
«Come ROPI – aggiunge la dottoressa Gori – ci siamo impegnati a presentare al Parlamento un documento per definire dei criteri clinici minimi per la strutturazione di PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale), affinché possano essere uniformati su tutto il territorio, riducendo così le disparità di accesso e opportunità di cure a livello regionale ancora esistenti. Inoltre sosteniamo la necessità, all’interno di tutte le strutture oncologiche, di un supporto psicologico, soprattutto in caso di diagnosi di tumore del colon-retto metastatico che genera un impatto molto forte sulla persona e i familiari, a causa delle paure e incertezze legate alle attese, alle terapie possibili, alla prospettiva di guarigione. Da qui anche l’importanza di (in)formare i pazienti e i care-giver su tutto quanto ruota attono alla malattia e di attivare politiche e strategie di sanità nazionale per ridurre il numero di cittadini con patologia oncologica, potenzialmente metastatici». Tra queste, ad esempio, è cruciale l’intercettazione dei pazienti a più alto rischio in cui vi è una componente di malattia su base genetica, o che hanno una accertata predisposizione ereditaria, ad esempio la sindrome di Lynch e altre sindromi correlate al tumore del colon retto, da avviare a programmi di “sorveglianza”, con monitoraggio e controlli più intensivi. Inoltre, va condotta maggiore sensibilizzazione fra la popolazione giovane, sotto i 50 anni, in cui si sta registrando un aumento delle diagnosi di tumore del colon-retto e che ancora non rientrano nelle campagne di screening oncologico istituzionale.
Fondamentale sarà dunque stabilire e potenziare le relazioni con il territorio, il Medico di Medicina Generale e le farmacie, per fare educazione al paziente, incentivando stili di vita corretti, promovendo la conoscenza dei sintomi della malattia, evitando che questa possa arrivare tardi alla diagnosi e/o diventare metastatica. Anche in quest’ultimo caso, oggi ci sono nuove opportunità terapeutiche rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale: «Si tratta di un farmaco biologico in compresse, chiamato Fruquintinib – conclude Sara Lonardi – che consente di rallentare la progressione di malattia. Agisce andando a bloccare una proteina che dà al tumore sostentamento, ossigeno e nutrienti, permettendone la crescita tramite un processo di neoangiogenesi cioè la formazione di nuovi vasi. Studi di letteratura hanno mostrato che bloccando questa proteina non solo si ferma la progressione di malattia, ma si assiste anche all’allungamento della sopravvivenza globale, di circa 7,5 mesi, in pazienti che avevano fallito terapie precedenti come chemio e anticorpi monoclonali, per i quali non vi erano più farmaci efficaci. Per costoro la risposta di cura è Fruquintinib che ha il valore aggiunto di essere una terapia orale, in compresse, altamente maneggevole e molto apprezzate dai pazienti».
di Francesca Morelli