Artrite Reumatoide: un farmaco biosimilare efficace e accessibile

«La possibilità di poter avere farmaci efficaci e a costi più contenuti per una malattia invalidante come l’artrite reumatoide, è stata accolta con entusiasmo dalla nostra associazione di pazienti». Lo conferma Antonella Celano, Presidente APMARR, Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare, all’indomani dell’approvazione di Tocilizumab come biosimilare. Si tratta di farmaci analoghi a quelli originali, ma con costi inferiori. «È un’opportunità terapeutica importante che consente di allargare il numero di persone eleggibili al trattamento, garantendo così un miglioramento nell’accesso al farmaco. Grazie ai progressi compiuti negli ultimi venti anni dalla ricerca scientifica in reumatologia, l’armamentario terapeutico a disposizione dei reumatologi si è progressivamente arricchito di farmaci sempre più innovativi per il trattamento delle artriti infiammatorie croniche. L’immissione in commercio dei farmaci biosimilari ha rappresentato una vera e propria rivoluzione in termini di risparmio di risorse sanitarie e di un maggior accesso alle cure per le persone con patologie reumatologiche. L’importante è che questi farmaci vengano prescritti dagli specialisti e monitorati dai medici di base, che devono essere coinvolti in questo percorso terapeutico, per garantire la sicurezza del loro uso e l’efficacia della cura. Da non sottovalutare la praticità d’uso: autosomministrabile per via sottocutanea una volta a settimana».

«Nel paziente sottoposto a cure con i biosimilari, sia esso usato subito o dopo un altro farmaco biologico, può a volte emergere il timore di essere trattato con un farmaco di serie B, usato solo per ridurre i costi», ha sottolineato la dottoressa Teresa Petrangolini, Direttore Patient Advocacy Lab di ALTEMS, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «Per questo è di estrema importanza che il medico informi e tranquillizzi il paziente su efficacia, affidabilità e sicurezza della cura adottata, proprio in considerazione degli elevati standard qualitativi dei biosimilari che sono identici a quelli dei farmaci originali».

Il tema dell’importanza dell’ampliamento della scelta terapeutica per il contrasto dell’artrite reumatoide, basato sul contributo fondamentale dei farmaci biosimilari, è stato al centro di un evento a Roma, presso la Fondazione Sturzo, dalla rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief (IHPB), che ha visto la partecipazione di farmacologi, clinici e pazienti. Ma vediamo nel dettaglio come agisce Tocilizumab e cosa sono i farmaci biosimilari.
«Tocilizumab è il primo anticorpo monoclonale tra gli inibitori dell’interleuchina-6 ad apparire sulla scena della lotta a questa patologia: essendo ora disponibile come biosimilare, quindi a costi notevolmente più contenuti e con gli stessi effetti del farmaco originale, ha tutti i presupposti per essere utilizzato efficacemente anche in prima linea e perfino in monoterapia, quando non fosse possibile la sua associazione con metotrexato, nel caso di pazienti che non rispondono a questa molecola o sono ad essa intolleranti», ha affermato il Professor Maurizio Rossini, ordinario di Reumatologia all’Università di Verona e Direttore della UOC di Reumatologia della AOUI di Verona. «Tocilizumab è una molecola importante che ha un suo preciso posizionamento nell’ambito della medicina personalizzata perché è stato il primo farmaco che ha consentito di contrastare l’artrite reumatoide senza doverlo necessariamente associare al metotrexato. La sua disponibilità come biosimilare contribuisce anzitutto in modo importante alla sostenibilità della spesa farmaceutica, generando risparmi che ampliano le possibilità di accesso alle cure per un maggiore numero di pazienti. Consente inoltre di ovviare ai problemi di approvvigionamento verificatisi in passato, oltre a rappresentare un’opportunità terapeutica in più, soprattutto in quelle regioni che dispongono l’uso del biosimilare come farmaco di prima scelta».

Quello dell’artrite reumatoide è un tema di sanità pubblica che incide pesantemente sul sistema socio-sanitario: i dati di uno studio CEIS dell’Università di Roma Tor Vergata evidenziano un costo complessivo annuo di oltre 2 miliardi di euro dei quali il 45% (931 milioni) relativi ai costi diretti sanitari, 205 milioni a carico dei pazienti in termini di costi diretti e circa 900 milioni per i costi indiretti generati dalla perdita di produttività per giornate di lavoro mancate. Dati, questi, che fanno comprendere la dimensione della sfida che il Servizio Sanitario Nazionale deve affrontare dal punto di vista della sostenibilità e dell’accesso all’innovazione, che rendono centrale il contributo che può derivare dall’impiego dei farmaci biosimilari per decongestionare l’impatto della spesa in questo specifico ambito sanitario.

«Tocilizumab è un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato che si lega in modo selettivo ai recettori dell’interleuchina-6 della quale inibisce l’attività infiammatoria, causa del danno articolare», ha spiegato il Professor Pierluigi Navarra, Ordinario di Farmacologia, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «L’ampia esperienza clinica su questo farmaco ne conferma l’efficacia e l’importante profilo di sicurezza, a breve e a lungo termine, oltre a farne una valida opportunità di trattamento, con somministrazione sottocutanea a frequenza settimanale,  sia in monoterapia che in abbinamento con metotrexate. Un’opzione terapeutica caratterizzata da un positivo rapporto costo/efficacia, soprattutto ora che è disponibile come biosimilare».

La possibilità di ampliare in modo significativo il numero dei pazienti che possono avere accesso a terapie sempre più efficaci, insieme alla necessità assoluta di assicurare la sostenibilità della spesa sanitaria, ha progressivamente consentito di superare l’iniziale riluttanza delle associazioni dei pazienti, rispetto all’uso dei farmaci biosimilari, anche se permane la necessità di assicurare un’adeguata informazione ai destinatari delle cure, oltre che di tutelare il principio della libera scelta per il medico circa la terapia da adottare.

di Paola Trombetta

 

L’ inquinamento peggiora l’infiammazione

L’inquinamento, si sa, è dannoso. Ma quello atmosferico è pessimo soprattutto per chi soffre di malattie reumatologiche perchè “riaccende” o innesca alcuni meccanismi infiammatori autoimmuni. Recenti studi sembrano, infatti, suggerire che l’inquinamento atmosferico provoca la produzione di auto-antigeni e quindi di auto-anticorpi che scatenano la risposta infiammatoria a danno, anche, delle articolazioni. Tra questi un lavoro dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata (AOUI) di Verona, in cui si è osservato un rischio maggiore di riattivazioni di artrite reumatoide durante i periodi più inquinati da ossidi di carbonio, d’azoto o da ozono, polveri sottili (PM10 o PM2,5). «Inoltre, è stato dimostrato che l’esposizione ad elevati livelli di inquinamento atmosferico – spiega Maurizio Rossini, Professore Ordinario di Reumatologia all’Università di Verona e membro del Comitato Scientifico di FIRA (Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia) – è una potenziale causa di inefficacia o perdita di efficacia delle terapie, determinando quindi la necessità di continui cambiamenti nel trattamento con un aumento dei costi per il Servizio Sanitario Nazionale». Inoltre sembra che l’esposizione cronica all’inquinamento, specie da particolato, possa impattare anche sul metabolismo scheletrico, causando l’aumento della concentrazione della proteina RANKL (coinvolta nella regolazione e nel controllo del metabolismo osseo) a favore del rilascio di citochine infiammatorie e l’attivazione degli osteoclasti, le cellule che demoliscono l’osso rendendolo più fragile. Effetti dannosi che si osservano soprattutto nelle donne. «Uno studio che abbiamo condotto su oltre 59.000 donne sul territorio italiano – prosegue Rossini – ha documentato che l’esposizione a concentrazioni elevate di PM 10 e/o PM 2.5 porta ad un aumentato rischio di osteoporosi di circa il 15%, in particolare al femore, potendo giustificare l’aumentato rischio di questa tipologia di fratture osservato proprio nei periodi più inquinati».

Se da un lato oggi l’artrite reumatoide appare meno grave dal punto di vista dell’infiammazione e della deformità articolare, risulta più impattante sulla qualità di vita dei pazienti: una parte di loro con malattia “spenta” continua in realtà a soffrire di dolori, stanchezza e profondo senso soggettivo di malessere che non sarebbero attribuibili a contesti psicosomatici. «Studi recenti – conclude Carlomaurizio Montecucco, Presidente di FIRA e ordinario di Reumatologia dell’Università di Pavia al Policlinico San Matteo – sembrano dimostrare che possa trattarsi di una infiammazione residua limitata al sistema nervoso, non diagnosticabile con gli abituali indicatori utilizzati nell’artrite. L’efficacia di alcuni farmaci per l’artrite che attraversano la barriera emato-encefalica, agendo sulla neuro-infiammazione, sembrano sostenere questa ipotesi, aprendo dunque  nuove strade di trattamento».

Francesca Morelli

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