Anemia da malattia renale cronica: una convivenza difficile

«Avevo 17 anni quando mi è stata diagnosticata una malattia renale cronica: oggi ne ho 47. Mi è stato asportato un rene e l’altro non funzionava: perciò ho dovuto iniziare la dialisi, un percorso veramente molto faticoso e invasivo: non si beve, perché i liquidi vengono trattenuti in quanto non si urina più. Oltre a depurare il sangue, la dialisi elimina anche i liquidi in eccesso e lascia l’organismo in uno stato di totale disidratazione: a volte, dopo la dialisi, perdevo anche tre chili in poche ore. Le conseguenze sono pressione bassa, stanchezza e totale inappetenza. Ricordo che spesso trascorrevo intere giornate sdraiata sul divano e alzarmi era come…scalare una montagna. A ciò si aggiunge l’anemia, ovvero la carenza di emoglobina, che porta ossigeno a tutte le cellule: convivere con l’anemia da malattia renale cronica non è facile perché ha conseguenza sulla vita relazionale, lavorativa e sullo stato di salute generale. L’anemia è provocata dall’insufficienza renale e richiede l’utilizzo di terapie come l’eritropoietina: a volte diventa necessario anche fare trasfusioni di ferro. E non serve introdurre nella dieta alimenti come spinaci, fegato che caricano ulteriormente i reni: il dializzato deve invece seguire una dieta tutta particolare. Per curare questa anemia si devono assumere terapie adeguate per tutta la vita. Tra queste è fondamentale l’eritropoietina, per produrre emoglobina e superare quelle situazioni di estrema stanchezza, affaticamento e a volte mancanza di respiro che l’anemia comporta. Solitamente viene somministrata durante la dialisi per endovena; fuori dalla dialisi si somministra sottocute: in più assumo ferro e folina. Dopo diversi anni di dialisi ho avuto il primo trapianto di rene che però non ha funzionato. Un anno e mezzo fa sono stata trapiantata  di nuovo all’Ospedale di Varese. Oggi grazie a questo nuovo rene ho in parte ridotto l’assunzione di eritropoietina e ferro, ma devo continuare ad assumere i farmaci antirigetto».

La testimonianza di Teresa Siclari, Segretaria Regionale di ANED Lombardia, Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto, fa riflettere sul grave problema dell’anemia, di cui soffrono i malati renali cronici: colpisce 1 paziente su 5 e ha una prevalenza femminile. La stanchezza è il sintomo più pesante e incide molto sulla qualità di vita. La diagnosi è spesso tardiva: il più delle volte l’anemia da malattia renale cronica non viene riconosciuta perché non dà segno di sè fino alle fasi più avanzate di malattia renale. L’anemia da malattia renale cronica raddoppia il rischio di morte per eventi cardiovascolari e renali: campanelli d’allarme come debolezza cronica, mancanza di respiro, pallore, palpitazioni debbono indurre la persona a rivolgersi subito al medico per valutare la situazione.

Per sensibilizzare l’opinione pubblica è partita la campagna “Anemia da malattia renale cronica. Diamo ossigeno alle aspirazioni” promossa da Astellas e ANED (Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto): un video online con una testimone d’eccezione, l’alpinista altoatesina Tamara Lunger, seconda donna a scalare il K2, sollecita i pazienti con anemia e le persone a rischio, ma anche tutti i cittadini, a inviare sul sito della Campagna www.anemiadamalattiarenale.it le proprie aspirazioni e progetti. Le aspirazioni, raccolte e condivise, permetteranno di realizzare la “Foresta delle Aspirazioni”: per ogni messaggio verrà piantato un albero nel Parco della Vettabbia, un’area verde di Milano, dall’azienda ZeroCO2, partner del progetto, impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici.

Per conoscere in modo più approfondito la malattia renale cronica e l’anemia che ne consegue, abbiamo intervistato la professoressa Maura Ravera, nefrologo all’Ospedale Policlinico San Martino di Genova e segretario della FIR (Fondazione Italiana del Rene).

 Cos’è l’anemia da malattia renale cronica e quali le cause?
«L’anemia da malattia renale cronica è una condizione patologica in cui i reni non producono sufficiente eritropoietina, l’ormone che stimola la produzione di globuli rossi: di conseguenza si riduce la capacità del sangue di trasportare ossigeno ai tessuti dell’organismo. Questo può comportare mancanza di respiro, astenia, debolezza, vertigini, pallore, problemi a livello cardiaco. La mancanza di energia influenza la capacità di lavorare, studiare,partecipare alle attività quotidiane e può generare frustrazione, depressione fino all’isolamento sociale. E’ spesso sottodiagnosticata e di conseguenza sottotrattata perché i sintomi possono essere sfumati: è importante non trascurarli, ma rivolgersi subito al proprio medico».

Quali esami occorre eseguire per avere la diagnosi?
«Il percorso diagnostico dell’anemia prevede una serie di test, quali la determinazione dei livelli di  emoglobina per capire la severità dell’anemia, gli indici eritrocitari per valutare il tipo di anemia, la conta eritrocitaria per determinare l’attività eritropoietica midollare, la ferritinemia per quantificare i depositi di ferro, la saturazione della transferrina per valutare la disponibilità di ferro a livello midollare, la proteina C reattiva per capire lo stato infiammatorio. Questo percorso è giustificato dal fatto che i meccanismi coinvolti nella genesi dell’anemia, associata a malattia renale cronica, sono molteplici. La causa principale è il deficit di eritropoietina endogena, che compare quando la funzione renale è compromessa. Non meno importanti sono però la carenza di ferro e lo stato infiammatorio cronico con aumento dei livelli di epcidina e di altre molecole che riducono la disponibilità di ferro. Sulla base di questa prima valutazione clinica e laboratoristica può essere indicato un check-up più esteso che include altri test, quali la ricerca di sangue occulto nelle feci, il dosaggio di vitamina B12 e folati, l’elettroforesi delle sieroproteine e il dosaggio del paratormone».

Cosa significa convivere con l’anemia da malattia renale cronica?
«L’anemia è una delle più importanti complicanze della malattia renale cronica.  La sua prevalenza aumenta a mano a mano che il danno renale progredisce e supera il 70% nello stadio più avanzato di malattia, con importanti ricadute cliniche. Questi pazienti hanno una qualità di vita insoddisfacente, caratterizzata da scarsa resistenza all’esercizio fisico, affaticabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, affanno, tachicardia, bassa pressione arteriosa.  Il cuore è l’organo che risente in misura maggiore dell’anemia: per mantenere un’adeguata ossigenazione dei tessuti va incontro a un sovraccarico che nel tempo porta allo sviluppo di cardiomiopatia, con conseguente aumento del rischio di eventi cardiovascolari e di mortalità. L’anemia, inoltre, a seconda del grado di severità, impatta anche sulla sfera lavorativa e relazionale. La malattia renale cronica terminale viene curata con la dialisi, una terapia salva-vita molto impegnativa e spossante. La presenza di anemia crea una situazione ancor più pesante. Fondamentale è la comunicazione medico-paziente: la persona deve riferire al medico tutti i suoi disturbi affinché lo specialista possa effettuare gli esami specifici e intervenire tempestivamente ».

Quali sono le terapie più utilizzate?
«Attualmente la terapia dell’anemia da malattia renale cronica si basa fondamentalmente sull’uso degli agenti stimolanti l’eritropoiesi (ESA), ovvero la formazione di globuli rossi, e sull’apporto di ferro. Le linee guida internazionali raccomandano la correzione dell’eventuale deficit di ferro, spesso presente in questi pazienti, prima di intraprendere la terapia con ESA. Questo approccio ha consentito di ridurre o addirittura abolire le emotrasfusioni. La somministrazione di ferro per via orale è considerata di prima linea: queste formulazioni sono più economiche e più pratiche per il paziente rispetto a quelle endovena. Una scarsa aderenza del paziente per intolleranza gastrointestinale, la mancata correzione del deficit, uno stato infiammatorio generalizzato, o la necessità di una più rapida correzione dell’anemia sono fattori che rendono invece necessaria la somministrazione per via endovenosa. Questa deve necessariamente avvenire in ambito ospedaliero per minimizzare i rischi di reazioni di ipersensibilità. La disponibilità dell’eritropoietina umana ricombinante per la terapia dell’anemia nel paziente nefropatico ha determinato alla fine degli ’80 una svolta epocale. Questa terapia ha però anche risvolti negativi, come l’aumentato rischio di fenomeni trombotici e l’ipertensione arteriosa. Pertanto, la correzione dell’anemia ha l’obiettivo di mantenere livelli di emoglobina compresi tra 10 e 12 g/dL, personalizzando il target in base alle caratteristiche cliniche del malato».

Ci sono novità nei trattamenti?
«Negli ultimi anni, grazie alla ricerca scientifica che ha permesso di chiarire i meccanismi molecolari che regolano l’eritropoiesi, sono stati prodotti nuovi farmaci orali: gli inibitori della prolil-idrossilasi dell’HIF. Si tratta di farmaci con un meccanismo d’azione innovativo: simulando una condizione di ipossia, stimolano la produzione di eritropoietina endogena da parte del rene, aumentano la disponibilità di ferro e riducono i livelli di epcidina, che riduce la biodisponibilità di ferro. Questi farmaci sono efficaci e rappresentano quindi una rivoluzione nel trattamento dell’anemia da malattia renale cronica poiché offrono nuove opportunità, specialmente nei pazienti infiammati che hanno un’insufficiente risposta agli attuali farmaci stimolanti l’eritropoiesi (ESA)».

Come è organizzato il percorso di gestione del paziente con questo tipo di anemia?
«Il nefrologo ha un ruolo chiave nella gestione dell’anemia da malattia renale cronica, perché può prescrivere gli agenti stimolanti l’eritropoiesi, con la formulazione di un piano terapeutico che viene rinnovato periodicamente. Il paziente viene inviato al centro di Nefrologia dal medico di medicina generale o da altri specialisti. Attualmente l’integrazione tra territorio e ospedale, cioè tra medici di medicina generale e specialisti, presenta alcuni limiti: una delle maggiori criticità è proprio l’invio tardivo del paziente nefropatico al nefrologo. La malattia renale cronica spesso presenta pochi sintomi, quando non e’ addirittura silente, soprattutto all’inizio: l’unico modo per svelarla è attraverso gli esami di funzionalità renale, cioè il dosaggio della creatininemia e l’esame delle urine, che valuta la presenza di albuminuria. Purtroppo, questi test semplici, a basso costo e ampiamente disponibili, sono sottoutilizzati, con conseguente ritardo nella diagnosi e nella prevenzione della malattia renale cronica e quindi anche dell’anemia a essa associata. Sono perciò necessari programmi di collaborazione tra medico di medicina generale e nefrologo e altri specialisti come il diabetologo, il cardiologo e l’internista. Ad esempio, in Emilia-Romagna è attivo dal 2003 il Progetto PIRP (Prevenzione Insufficienza Renale Progressiva), che ha dato ottimi risultati. Il più rilevante è la riduzione del numero di pazienti nefropatici che hanno presentato una progressione del danno renale tale da richiedere la dialisi: si tratta di circa 100 pazienti in meno nell’arco di 10 anni. Questo risultato è stato possibile grazie alla sinergia tra medico di medicina generale e nefrologo e all’ottimizzazione delle terapie. Recentemente è stato lanciato il progetto KAN (Kidney Anemia Network), che ha come obiettivo di creare una collaborazione tra ospedale e territorio attraverso l’utilizzo di una scheda nefrologica condivisa, per l’identificazione precoce della malattia renale cronica e l’inizio tempestivo del trattamento dell’anemia, quando presente».

di Paola Trombetta

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