“Paura del Buio”: un “corto” e una campagna contro i timori dell’anestesia

Irrazionale, incontrollabile, fonte di incubi e notti insonni per bambini e genitori, la “paura del buio” è forse la più atavica delle fobie e si può affrontare solo con la consapevolezza, l’informazione e, a volte, affidandosi a qualcuno che indichi la strada “Oltre il Buio”. E questo è vero soprattutto quando il “buio della paura” riguarda la salute. Tra le paure più diffuse in ambito medico, c’è quella dell’anestesia: il sonno dal quale oltre il 63% dei pazienti teme di non svegliarsi e sul quale, anche chi non ha questo timore, vorrebbe essere informato e rassicurato dal proprio anestesista rianimatore (95,5% degli intervistati). Un compito, quello dell’informazione al paziente, spesso poco valorizzato, al quale gli anestesisti-rianimatori già si dedicano quotidianamente e che rappresenta un importante tassello nel percorso pre-operatorio.

E proprio dall’esigenza di informare e rassicurare le persone attraverso la consapevolezza, nasce il cortometraggio “Paura del Buio”, di Mattia Lunardi, prodotto da Brandon Box con Eleonora Giovanardi, la piccola Marika Ivanytska e Giacomo Valdameri. Il corto è stato voluto da MSD Italia nell’ambito del progetto educazionale “Oltre il Buio” (#oltreilbuio) con il patrocinio di SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) ed è stato presentato in anteprima assoluta al Festival del Cinema di Roma: sarà in onda il 30 ottobre su Paramount Network – canale 27 del digitale terrestre, 27 di Tivùsat anche in HD e 158 di Sky in HD e poi pubblicato, a partire dal 31 ottobre, sul sito www.adocchiaperti.msdsalute.it .

«Abbiamo scelto il linguaggio metaforico del cinema per raccontare una paura molto concreta, che si può e si deve superare, perché oggi le procedure anestesiologiche sono sicure e controllate», dichiara Nicoletta Luppi, Presidente e Amministratore Delegato di MSD Italia. «Anche ora, nonostante gli ospedali abbiano protocolli efficaci nel gestire i pazienti in sicurezza, sono ancora molte le persone che scelgono di rimandare gli interventi chirurgici e la diagnostica. Per superare la paura c’è solo una strada: parlare con il proprio medico, chiedere consiglio e ricevere da lei o da lui le informazioni necessarie per decidere con serenità. L’obiettivo del cortometraggio e della campagna “Oltre il Buio” è proprio questo: incentivare il dialogo con gli anestesisti-rianimatori, che prima, durante, e dopo la pandemia, hanno continuato ad assistere, informare i pazienti con spirito di servizio. A loro in particolare e a tutti i medici in generale va la nostra riconoscenza».

Il cortometraggio è improntato sulla relazione tra la mamma, medico anestesista-rianimatore, rientrata dopo una durissima giornata di lavoro, e la bambina terrorizzata dalle misteriose creature presenti nei suoi incubi, che prendono corpo nelle ombre proiettate sulle pareti della stanza. Timori che vengono pian piano superati quando la mamma decide di fornire alla bambina delle spiegazioni razionali e di accompagnarla a verificare l’infondatezza delle sue paure. Con le medesime modalità ogni giorno la mamma aiuta i suoi pazienti: ascoltandone i bisogni, fornendo le informazioni necessarie per tranquillizzarli.

Con l’aiuto della professoressa Flavia Petrini, già titolare della Cattedra di Anestesia e Rianimazione all’Ospedale di Chieti/Pescara e Past-President di SIAARTI (Società Italiana Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), cerchiamo di focalizzare l’attenzione sull’importanza e le difficoltà di una professione come l’anestesista, che è stato tra i principali protagonisti in questo periodo di pandemia.

Qual è il ruolo dell’anestesista-rianimatore durante questo tempo di pandemia e quali difficoltà avete dovuto affrontare, soprattutto all’inizio?
«È stato un ruolo estremamente difficile, perché era impossibile stare vicino ai pazienti e ai loro familiari, a causa delle restrizioni imposte dal rischio di contrarre l’infezione, che ci costringeva a lavorare in modo asettico e distanziato, indossando pesanti maschere e ingombranti tute che ci impedivano di stare vicini e rivolgere parole di conforto. E soprattutto usando macchinari e tecnologie sofisticate, che non ci lasciavano tempo da dedicare ai rapporti umani. Ma in questo modo siamo riusciti a salvare tante vite. Ci siamo impegnati per essere sempre presenti, 24 ore su 24, attivando macchinari e cercando, per quanto possibile, di tranquillizzare i pazienti, anche in situazioni di estrema gravità. La paura si leggeva nei loro occhi, soprattutto prima di essere intubati, e chiedevano di essere rassicurati, anche se in alcuni casi era molto difficile, perché conoscevamo bene la gravità della situazione. L’anestesista comunque ha contribuito durante la pandemia a sconfiggere la paura e la malattia, che in tantissimi hanno sperimentato nelle terapie intensive, lottando contro il Covid-19. Inoltre ogni giorno aiutiamo molte persone che, nelle terapie intensive e nelle sale operatorie, combattono la malattia, la paura, il dolore. Come medico peri-operatorio prepariamo il paziente, sotto il profilo medico e psicologico, ad affrontare un intervento chirurgico, avendo conoscenza delle funzioni e disfunzioni di organi e apparati, e seguiamo poi il trattamento post-operatorio, prevenendo complicanze e riducendo sofferenza e dolore. Lo stesso lavoro avviene nelle aree d’emergenza, nelle terapie intensive, nelle strutture di terapia del dolore».

È vero che questa professione viene scelta soprattutto dalle donne? C’è un motivo particolare legato magari a un approccio più “empatico” alla sofferenza?
«Gli anestesisti sono sempre stati prevalentemente donne, fin dalla nascita di questa specialità, perché di fatto discendiamo… dalle suore. Erano infatti le suore che nel passato faceva gocciolare l’etere sulla mascherina per addormentare il paziente. Molte donne scelgono oggi questa professione che è però ancora “ancillare”. Il chirurgo è il superman, l’uomo che ti salva; l’anestesista è un gregario che “serve” il chirurgo. Oggi ci sono tante professioniste donne che potrebbero occupare ruoli dirigenziali, cattedratici, dirigere Unità operative, diventare presidenti di società. Io lo sono diventata qualche anno fa, ma sono stata la seconda donna presidente nell’arco di 85 anni. Per questo come Società scientifica cerchiamo di valorizzare le giovani che scelgono questa professione, facendole conoscere ai congressi e facilitandone l’inserimento negli ospedali. Ma è un lavoro davvero difficile e richiede un grande spirito di sacrificio e una disponibilità assoluta 24 ore su 24, per 365 giorni all’anno. E per una donna, conciliare il lavoro con gli impegni familiari, i problemi dei figli e magari anche l’assistenza ai genitori anziani, diventa un’impresa quasi impossibile».

Dopo l’esperienza della pandemia, non c’è stata una rivalutazione del ruolo dell’anestesista, considerando che è stata proprio una donna anestesista di Codogno a individuare il primo paziente Covid?
«Purtroppo dopo la pandemia stiamo assistendo a un vero e proprio “burn-out”, con abbandono della professione da parte di molte donne, causato probabilmente dallo stress eccessivo accumulato. La nostra Società scientifica sta cercando di arginare questo problema negli ospedali. Personalmente ho parlato anche con la sottosegretaria al Ministero della Salute, dottoressa Zampa, per cercare di sensibilizzare su queste problematiche ed evidenziando la scarsa attenzione che la Medicina di Genere ottiene in Italia. Purtroppo anch’io alla fine ho dovuto arrendermi: tra lo stress causato dalla pandemia e la gestione dei miei impegni familiari, ho scelto di andare in pre-pensionamento, mantenendo però l’impegno con la SIAARTI per cercare di sostenere e riscattare il ruolo della donna anestesista, una professione a cui ho comunque dedicato gran parte della mia vita».

di Paola Trombetta

 

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