La rivoluzione terapeutica per la colite ulcerosa

Due pillole, una assunta al mattino e l’altra alla sera, possono cambiare la vita. Almeno quella di molti italiani che soffrono di colite ulcerosa nella forma attiva, moderata grave. «Si tratta di una malattia infiammatoria cronica importante – spiega Alessandro Armuzzi, Professore di Gastroenterologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – che attacca la mucosa del grosso intestino, il colon. È di origine multifattoriale, dovuta cioè a cause diverse: genetiche; ambientali, come lo smog e l’inquinamento; lo stile di vita, tra cui una dieta scorretta che incide sulla formazione del microbiota intestinale, e lo stress, con l’impatto invalidante che coinvolge diversi aspetti.
La sintomatologia prevalente – scariche diarroiche con sangue e muco, urgenti e incontrollabili, accompagnate spesso da dolori e crampi addominali, febbre, perdita di peso e spossatezza – impone grandi limitazioni alle persone che ne sono affette (in larga parte tra i 20-30 anni di entrambi i sessi), obbligandole spesso a rivoluzionare i progetti personali e di carriera, di impegno terapeutico, fino ad oggi associato a trattamenti per via endovenosa».

Una problematica tanto grave da poter condurre, nelle fasi più avanzate di malattia, anche all’intervento chirurgico con l’asportazione di parte dell’intestino. Un quadro destinato a cambiare, grazie all’approvazione e all’arrivo in Italia di una nuova soluzione terapeutica rimborsata dal Sistema Sanitario Nazionale: un farmaco ad azione rapida, con sensibili benefici dopo 2-3 giorni dall’assunzione, facile da assumere (per bocca) e che libera dal senso di medicalizzazione, e responsivo con la guarigione di molte ulcere intestinali ed esiti mantenuti nel tempo, senza necessità di assunzione del cortisone, e possibilità di modulare i dosaggi secondo la risposta terapeutica. Il tutto con un indiscusso miglioramento della qualità di vita e dell’aderenza alla cura. «Questa nuova molecola – continua Armuzzi – appartiene alla classe degli JAK-inibitori, ovvero va a “spegnere” le Janus chinasi, le citochine che sono la miccia del processo infiammatorio che innesca i sintomi della colite ulcerosa. A differenza degli anticorpi monoclonali che inibiscono una citochina per volta, questo principio attivo (tofacitinib citrato) ne spegne diverse simultaneamente con benefici su diversi contesti clinici che non hanno dato risposte adeguate. È infatti efficace in pazienti che non hanno mai effettuato terapie biotecnologiche o refrattari alle terapie convenzionali come il cortisone, i salicilati o gli immunosoppressori tradizionali, ma anche in chi ha già fallito le terapie con farmaci biologici, come gli anti-TNF alfa. Il valore aggiunto di questa terapia sta nella sua flessibilità: c’è la possibilità di ritornare al dosaggio dell’induzione, se ce ne fosse bisogno durante il mantenimento, oppure nel caso di perdita di risposta si può riaumentare la dose e tornare a quella precedente una volta riottenuto il risultato». Essendo un farmaco che va a modulare il sistema immunitario, è dunque fondamentale l’adeguata selezione dei pazienti per evitare eventuali effetti collaterali possibili. Un farmaco “atteso” dai pazienti, specie dalla popolazione più giovane che fatica a comprendere e accettare che il “cronico” sia e significhi una malattia che sarà “per sempre”.

«La colite ulcerosa – aggiunge Salvatore Leone, Direttore Generale AMICI Onlus – è una patologia con forte impatto sociale, caratterizzata da una disabilità non visibile e con sintomi difficili da raccontare, dall’andamento contraddistinto da fasi di attività e di quiescenza in cui la persona può sembrare sana, ma che in realtà non lo è, e ha esigenze diverse secondo la fase e il decorso della malattia. Quando la malattia è attiva, richiede l’inserimento in un percorso di cure che prende per mano il paziente aiutandolo a gestire i sintomi e le problematiche connessi, mentre in fase di non attività è fondamentale far capire al paziente l’importanza dell’aderenza terapeutica al trattamento prescritto – che non va mai abbandonato – e di continuare a vivere serenamente la propria condizione di cronicità. In funzione di tutti questi aspetti, la nuova molecola è benvenuta perché soddisfa diversi bisogni clinici: primo fra tutti avere un farmaco che punta sia alla qualità di vita e di trattamento, sia all’esito clinico. Si passa infatti dal semplice controllo dei sintomi delle terapie precedenti – e utili a ridurre l’eccessiva risposta del sistema immunitario – a un livello di raffinatezza così alto da poter parlare di cicatrizzazione della mucosa e remissione clinica della malattia, con modalità di somministrazione facile e innovativa».

La disponibilità di un’alternativa terapeutica orale tiene dunque conto anche dell’aspetto della perdita di produttività (fondamentale per il paziente giovane, ma poco considerato nella valutazione di un trattamento), spesso causata da terapie non erogate tempestivamente per motivi economici o da farmaci che richiedono un accesso alla struttura ospedaliera per la somministrazione, con conseguente assenza dal posto di lavoro. «L’impatto della malattia sulla vita della persona – precisa Leone – dovrebbe essere invece di grande importanza per la Società in generale e in particolare per tutto il sistema di cura, inclusa la ricerca del settore farmaceutico, per garantire cure efficaci, sostenibili per il SSN e per passare da un sistema centrato sulla malattia a un sistema centrato sulla persona». Un obiettivo che l’azienda produttrice di Tofactinib ha ben chiaro: «La scienza è al centro della nostra missione – conclude Efrem Appel, Direttore Inflammation&Immunology di Pfizer in Italia – e del nostro impegno quotidiano che va oltre il laboratorio, mettendo al centro le persone e le loro esigenze di quotidianità. La malattia non è sempre visibile agli occhi degli altri, ma c’è e cambia la vita, chiedendo a chi ne soffre di essere più forte e coraggioso. Coloro che sono costretti a convivere con una malattia infiammatoria cronica intestinale non hanno solo il diritto di sopravvivere più a lungo possibile, ma di vivere dignitosamente».

di Francesca Morelli

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