Melanoma: presentate all’ASCO nuove terapie per pazienti ad alto rischio di recidiva

Tempo d’estate vuol dire anche maggiori rischi per la pelle, che deve essere protetta dai raggi Uva e Uvb. Tra i pericoli, l’aumentata incidenza di melanoma, il tumore cutaneo più diffuso che colpisce ogni anno 285 mila persone, di cui più di 10 mila in Italia; nel 2019 si sono registrati addirittura 12.300 casi. E’ il terzo tumore più frequente sotto i 50 anni e nel 20% dei casi i pazienti hanno un’età tra 15 e 39 anni. Buone notizie per la cura di questo tumore giungono dall’ASCO, il più importante Congresso di Oncologia promosso a Chicago dall’American Society of Clinical Oncology che quest’anno si è tenuto via streaming. Si tratta in particolare di una combinazione di farmaci, dabrafenib e trametinib, da somministrare dopo l’asportazione del tumore, nei pazienti con mutazione del gene BRAF, ad alto rischio di metastasi. Con un ciclo di terapia orale per un anno, più del 50% dei pazienti è libero da malattia a 5 anni. La conferma viene dallo studio COMBI-AD su 870 soggetti.

«I pazienti che, alla diagnosi, presentano malattia allo stadio III sono circa il 15% dei nuovi casi di melanoma e risultano ad alto rischio di recidiva, dopo intervento chirurgico, con una prognosi peggiore», afferma Paola Queirolo, Direttore Divisione Melanoma, Sarcoma e Tumori rari all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. «I risultati dello studio COMBI-AD mostrano che il trattamento abbinato con dabrafenib + trametinib, dopo intervento chirurgico, offre una sopravvivenza libera da recidiva a lungo termine. Cinque anni di follow up rappresentano un traguardo clinicamente ed emotivamente significativo. La maggioranza delle recidive, nei pazienti con malattia al III stadio, si manifesta entro cinque anni e il melanoma ricorrente con mutazione di BRAF, una volta che si è diffuso agli altri organi, può essere pericoloso e più difficile da curare rispetto alla malattia iniziale. Poter trattare i pazienti fin dall’inizio aumenta la possibilità di evitare una recidiva e permette di curare il soggetto, favorendone la guarigione. L’utilizzo di questa combinazione di farmaci, in grado di colpire due bersagli, ha portato risultati fino a qualche anno fa insperati nella fase avanzata della malattia e, oggi, la conferma di poter cambiare la storia della malattia anche a uno stadio precoce. La durata del trattamento con dabrafenib e trametinib è di un anno. La prospettiva di una “fine” terapia, di solito non possibile nel melanoma metastatico, è un notevole vantaggio psicologico per pazienti spesso giovani».

La malattia ha infatti registrato un deciso aumento negli ultimi 20 anni, passando da un’incidenza di 5 casi su 100 mila negli anni ’90 a 20 casi su 100 mila oggi. Se anni fa la prevalenza era femminile, oggi si registra un aumento nei maschi (dal 4 al 7%), soprattutto prima dei 40 anni: il 20% dei pazienti è tra i 15 e 39 anni.

«Per 20 anni non si sono fatti passi avanti nel trattamento del melanoma ad alto rischio di recidiva, essendo l’interferone l’unica terapia disponibile, ma che purtroppo è associata a un’elevata tossicità e scarsi vantaggi in termini di sopravvivenza, non superiori al 3%», sottolinea Mario Mandalà, Responsabile Unità Melanoma dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Negli ultimi 5 anni, due strategie sono state sviluppate in fase adiuvante: da una parte gli anticorpi che bloccano i checkpoint inibitori del sistema immunitario e dall’altra la terapia target, quest’ultima specifica nei pazienti con melanoma BRAF mutato. All’ASCO 2020 sono stati presentati i dati a 5 anni dello studio COMBI-AD, che ha valutato l’efficacia di dabrafenib + trametinib in pazienti con melanoma in stadio III. I risultati dimostrano l’efficacia della terapia target non solo a breve, ma anche a lungo termine. A tre anni l’intervallo libero da recidiva era del 59%, a quattro del 54%, a cinque del 52%. Si sta raggiungendo una sorta di plateau, che fa ben sperare nella guarigione per questi pazienti. È importante, quindi, anticipare il trattamento con la terapia mirata nei pazienti in stadio III, cioè con coinvolgimento dei linfonodi regionali, che presentano alto rischio di recidiva, perché con questa terapia è possibile ottenerne una rilevante riduzione. Il buon profilo di tollerabilità consente inoltre di mantenere una buona qualità di vita, con facile aderenza alla cura da parte dei pazienti: trattandosi di una terapia orale, è interamente domiciliare».

Questi farmaci combinati sono indicati nei pazienti con mutazione del gene BRAF, presente in circa il 50% dei casi. «Si tratta di una mutazione genetica del gene BRAF che produce una proteina alterata, che stimola in maniera continuativa la proliferazione delle cellule tumorali», spiega Michele Del Vecchio, Responsabile S.S. Oncologia Medica Melanomi, Dipartimento di Oncologia ed Ematologia, Istituto Nazionale Tumori di Milano. «La terapia mirata con dabrafenib + trametinib agisce in maniera selettiva, spegnendo l’attività della proteina BRAF mutata, bloccando quindi l’evoluzione del tumore e garantendo un’elevata efficacia con una maggiore aspettativa di vita. Da qui l’importanza di tracciare un identikit dettagliato del melanoma, a partire dalle fasi precoci, grazie al test per individuare la mutazione BRAF, che consiste in un esame di laboratorio su un campione di tessuto. Per questo è fondamentale la stretta collaborazione tra le figure professionali coinvolte nella gestione del paziente: dermatologo, radiologo, anatomo-patologo, biologo molecolare, oncologo medico e chirurgo. La richiesta di valutare la mutazione BRAF parte dal chirurgo; la valutazione viene eseguita dal biologo molecolare, a cui l’anatomo-patologo invia il tessuto. Durante la prima visita, l’oncologo medico deve già disporre di questa informazione per decidere la terapia più adeguata».

di Paola Trombetta

Nuove prospettive dall’immunoterapia

Anche l’immunoterapia è una nuova frontiera per la cura del melanoma. Ogni anno più di mille pazienti potrebbero beneficiare di un trattamento “precoce” con i farmaci immuno-oncologici, dopo l’intervento chirurgico, per prevenire la recidiva del tumore o lo sviluppo di metastasi. «L’immuno-oncologia ha dimostrato risultati importanti nella fase metastatica, dove rappresenta lo standard di cura», spiega la professoressa Paola Queirolo, responsabile scientifico del Progetto #soleconamore e Direttore della Divisione Melanoma, Sarcoma e Tumori rari all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. «Oggi la sfida è di poter anticipare il trattamento in alcuni pazienti in stadio III e IV, dopo che il tumore è stato completamente asportato, per aumentare la possibilità di evitare una recidiva o la ricomparsa della malattia e, quindi, di poter curare il paziente». La Commissione Europea, nel luglio 2018, ha approvato l’utilizzo di nivolumab nel trattamento adiuvante dei pazienti adulti con melanoma, con coinvolgimento di linfonodi o malattia metastatica, sottoposti ad asportazione completa. L’approvazione si è basata sui risultati dello studio di fase III CheckMate238, pubblicati sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine. «La durata del trattamento con nivolumab è solo di un anno», aggiunge la professoressa Queirolo. «Questi farmaci sono in grado di sviluppare una memoria nel sistema immunitario che mantiene la capacità di eliminare le cellule tumorali a lungo termine, anche dopo l’interruzione della somministrazione. Il follow up degli studi con nivolumab arriva a 4 anni con il 46% dei pazienti vivi. Vorrei inoltre sottolineare come i nuovi farmaci immuno-oncologici hanno un ottimo profilo di tollerabilità: meno di 2 pazienti su 10 sviluppano eventi avversi che possono portare all’interruzione della somministrazione».   P.T.

 

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