Le parole chiave nel rapporto tra medici e pazienti oncologici

Lealtà, ascolto, fiducia, engagement: sono queste le parole chiave della relazione tra medico e paziente oncologico. Lo hanno affermato le Associazioni coinvolte nel progetto di tutela dei diritti dei pazienti oncologici “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, in occasione del convegno, che si è tenuto i giorni scorsi a Roma: “Il patto medico-paziente in onco-ematologia: la corretta informazione come valore e responsabilità”. Al primo posto la lealtà, ovvero il medico non deve nascondere alcuna informazione al paziente, valutandone però l’impatto emotivo, mentre il paziente deve riconoscere al medico la sua autorevolezza. Il secondo principio è l’ascolto: il medico deve utilizzare un linguaggio comprensibile al paziente che, a sua volta, deve considerare il medico quale interlocutore primario. Terzo elemento è la fiducia, quella del medico nella capacità del paziente di comprendere le scelte terapeutiche e quella che deve avere il paziente nella diagnosi e nella terapia indicate dal medico. Infine l’engagement: medico e paziente devono sentirsi egualmente coinvolti nel percorso di cura, mantenendo la necessaria continuità della relazione e impegnandosi nei rispettivi ruoli affinché controlli e terapie non vengano mai interrotti.

I progressi della ricerca, la medicina di precisione e Internet stanno cambiando le modalità della comunicazione tra medici e pazienti oncologici, una popolazione di oltre 3 milioni di persone destinata a crescere del 3% ogni anno. Terapie personalizzate e mirate contro specifiche mutazioni, test diagnostici molecolari in grado di predire l’efficacia dei trattamenti sul singolo paziente, farmaci biotecnologici sempre più sofisticati, che possono essere sostituiti con i biosimilari: sono alcuni dei fattori che rendono più complesse le interazioni quotidiane e aumentano la necessità che la scelta terapeutica si realizzi attraverso un percorso di condivisione delle informazioni tra medico e paziente. Al medico oggi si chiede di spiegare ai pazienti perché un determinato test genetico o un farmaco innovativo vengono prescritti ad altri e non a lui. Oppure deve fornire ai pazienti informazioni chiare e puntuali nel momento in cui, per esempio, decide di variare la terapia con un farmaco biotecnologico, sostituendolo con un biosimilare. La tendenza alla cronicizzazione delle malattie oncologiche è un ulteriore fattore che crea una prospettiva dl comunicazione di lungo periodo e chiama in gioco un nuovo protagonista, il medico di medicina generale, incaricato di gestire le informazioni sulle terapie. Mentre le informazioni che arrivano dal web possono disorientare i pazienti e incrinare la fiducia nel medico.

«Il rapporto medico-paziente è centrale per l’efficacia dei processi sanitari», dichiara Annamaria Mancuso, presidente di Salute Donna onlus. «L’informazione al paziente riveste un ruolo fondamentale per assicurare trasparenza, condivisione e partecipazione di entrambi al percorso terapeutico. La prospettiva che noi pazienti favoriamo è quella di un’alleanza strategica con i medici per assicurare la scelta delle migliori opzioni nell’ottica di una medicina sempre più efficace e personalizzata. La comunicazione tra medici e pazienti oncoematologici è parte integrante del nostro progetto, in quanto essere informati è uno dei diritti fondamentali del paziente e, attraverso l’informazione, i pazienti hanno migliore consapevolezza dei propri diritti».

La “nuova” comunicazione medico-paziente si fonda su due pilastri: da un lato la bioetica che prescrive al medico di confrontarsi con il singolo malato e le sue esigenze; dall’altro, la risposta neurofisiologica che, in presenza di un medico partecipativo, può attivare una serie di endorfine – ormoni, mediatori, e veri e propri farmaci naturali come la serotonina – che aumentano l’efficacia delle terapie anche del 30 per cento. Un’efficace alleanza terapeutica favorisce anche la sostenibilità del Servizio sanitario perché aumenta la capacità del paziente di segnalare eventuali effetti collaterali, migliora la sua aderenza alla terapia e riduce la conflittualità. Ma il linguaggio non è ancora a misura di paziente. «Oggi il Consenso informato appare molto orientato alla protezione legale del medico o dell’azienda che sperimenta un certo farmaco, ma non offre quella necessaria consapevolezza delle motivazioni per cui un determinato malato deve ricevere specifiche terapie», puntualizza Felice Bombaci, responsabile del Gruppo AIL Pazienti Leucemia Mieloide Cronica. «Ne consegue che il paziente “non sa”, perché il linguaggio del Consenso informato è di difficile comprensione, mentre dovrebbe affrontare e approfondire in modo semplice e chiaro la conoscenza di una certa terapia e le problematiche cui potrebbe andare incontro». Per questo è fondamentale il ruolo del medico di famiglia nella gestione del paziente oncologico. «Il medico di medicina generale oggi si deve fare carico della nuova situazione nella quale il paziente oncologico vive a casa propria, conduce una vita normale, spesso non è più in terapia, ma deve solo essere controllato nel tempo», fa notare Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG). «Il medico generale deve conoscere i farmaci che il paziente assume, deve sapere quali sono gli esami e le indagini che devono essere ripetuti e monitorati. Purtroppo il medico di medicina generale non solo non può prescrivere i farmaci innovativi, ma non ha accesso all’informazione scientifica su questi farmaci, nonostante ai medici del territorio sia richiesta la presa in carico di tutti i cittadini, anche quelli con cronicità di malattie».

Comunicazione della diagnosi, dare tutte le informazioni, ma pensare anche alle emozioni del paziente. «I medici, come tutto il personale sanitario, hanno un vincolo etico-deontologico riguardo alla comunicazione della diagnosi ai pazienti e non possono esimersi dal comunicare tempestivamente e in maniera chiara, non solo la diagnosi, ma anche le implicazioni terapeutiche», puntualizza Paolo Gritti, Presidente Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO). «Alcuni oncologi sono più inclini all’orientamento anglosassone, in cui la comunicazione della diagnosi è immediata e molto esplicita; nell’oncologia italiana è rimodulato, tenendo presente l’impatto emotivo. Spesso è necessario ritornare su tutto questo, in quanto bisogna considerare che nel momento in cui riceve la diagnosi, il paziente affronta una shock emotivo e molto spesso bisogna affrontare certi aspetti dell’informazione per assicurarsi che lui abbia compreso il problema». «Il medico di base è la figura di riferimento per i pazienti: si tratta della persona a cui generalmente da anni il paziente si rivolge e nei confronti del quale nutre fiducia», aggiunge Viviana Ferrari, presidente di Nastro Viola. «Ascoltare con attenzione i sintomi descritti dal paziente e intervenire prontamente laddove la terapia consigliata non dia risultati può salvare la vita. Purtroppo, nel caso del tumore al pancreas, è evidente che la maggior dei medici di base non è completamente preparata nel riconoscere i sintomi precoci e questo rende particolarmente difficile l’individuazione della neoplasia in fase iniziale». E’ dunque fondamentale che l’oncologo informi il paziente sulle cure più appropriate. «La condivisione di strategie o scelte terapeutiche o specifiche è di straordinaria importanza, perché un paziente informato è in grado di segnalare tempestivamente eventuali effetti collaterali e di sottoporsi a trattamenti così complessi in maniera continuativa e senza interruzioni, sospensioni o riduzione di dose», spiega Paolo Marchetti, professore ordinario di Oncologia Medica, Direttore dell’Unità di Oncologia Medica, dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Roma. «Oggi abbiamo un’offerta sempre crescente di test diagnostici che esplorano diverse aree dell’oncologia. Se l’oncologo ritiene non ci siano indicazioni a effettuare un determinato esame, deve spiegarne i motivi al paziente che attraverso Internet o il passaparola potrebbe essersi convinto di poterne beneficiare. Per quanto attiene ai farmaci biosimilari, le regole del Consenso informato al trattamento prescrivono ai medici un’informazione puntuale e adeguata al paziente, gli studi di equivalenza, gli studi di pari efficacia e di sostanziale sovrapponibilità degli effetti collaterali».

Non solo informazione, serve anche la formazione per un paziente coinvolto nel percorso di cura.

«I pazienti chiedono informazioni e hanno bisogno di ricevere messaggi chiari e corretti rispetto alla propria patologia e a tutte le opzioni terapeutiche che oggi caratterizzano lo scenario oncologico», conclude Stefania Vallone, di WALCE, Women Against Lung Cancer in Europe. «Una buona comunicazione può produrre maggiori benefici in termini di soddisfazione del paziente, di riduzione di ansia e stress e di migliore cooperazione con il medico, la qualità di vita non dipende solo dalle cure migliori, ma anche dalla capacità di ridurre gli effetti collaterali delle terapie, di saper informare con chiarezza chi deve affrontare queste cure, e soprattutto da un rapporto di fiducia e di empatia con il proprio medico. È dunque importante che le Associazioni continuino il loro percorso di “empowerment”, cercando di offrire al paziente gli strumenti che possano essergli d’aiuto nella sua formazione al fine di renderlo maggiormente consapevole della propria condizione e più predisposto all’interazione e all’alleanza con l’oncologo di riferimento».

di Paola Trombetta

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