Fecondazione assistita, tra ansie e timori

«Cosa mi accadrà con la stimolazione ormonale? Esaurirò tutte le scorte di ovociti e magari andrò in menopausa precoce? O peggio ancora avrò in futuro il rischio di sviluppare un tumore alle ovaie? E se dopo tutti questi sacrifici non riuscirò ad avere un bambino, cosa mi potrà accadere? Cadrò in depressione o magari si incrinerà il rapporto con il mio partner? E cosa sarà della mia vita?»

Sono alcune domande che nascono spontanee nelle donne che affrontano un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). Lo conferma Luisa Musco, mamma di due bambini avuti con la fecondazione assistita, che ha fondato nel 2013, assieme a Stefania Tosca e Matilde Percolla, l’Associazione “Strada per un sogno” onlus (www.stradaperunsognonlus.it), che oggi ha più di 600 associate e segue le donne che intraprendono un percorso di PMA. «Il timore più grande che abbiamo evidenziato nelle donne, oltre alle paure legate alla salute, riguarda il fallimento di questo percorso. Le coppie si mettono in gioco totalmente per ottenere una gravidanza, affrontando sacrifici e impegni che coinvolgono tutta la loro vita, affettiva e di relazione. E il fallimento viene vissuto come un dramma che mette a rischio la stabilità della coppia e il rapporto relazionale. Per questo, come associazione, mettiamo a disposizione psicologi che possono aiutare in questi momenti di estrema difficoltà che, con i ginecologi, sono fondamentali per aiutare a elaborare un fallimento e decidere se ricominciare un altro ciclo oppure interrompere i trattamenti».

Per approfondire le tematiche relative alle paure delle coppie e alle difficoltà di affrontare un percorso di PMA, si è tenuto i giorni scorsi il Congresso “La prevenzione del rischio clinico nella medicina della riproduzione umana”, promosso dal Centro Demetra di Firenze.

«Un rischio come l’iperstimolazione ovarica, molto temuta dalle donne, costrette in passato a essere ospedalizzate per complicanze quali ascite (ristagno di liquidi nella cavità addominale), è oggi fortemente ridotto», rassicura la dottoressa Claudia Livi, direttore sanitario del Centro Demetra. «Infatti in questi casi, per preparare al prelievo ovocitario, si utilizzano farmaci, come gli analoghi del GNRH (per favorire la liberazione di gonadotropine), che limitano moltissimo l’iperstimolazione ovarica. I dosaggi utilizzati di gonadotropine sono definiti in base a precise linee-guida che tengono conto delle caratteristiche individuali e dell’età della donna. Ovviamente le donne giovani avranno necessità di dosaggi più bassi delle over-40. In più oggi siamo in grado di valutare la riserva ovarica di ciascuna donna con il dosaggio dell’ormone anti-mulleriano (AMH), prima di iniziare una PMA per poter meglio valutare i trattamenti e le probabilità di riuscita. Da un recente articolo pubblicato sulla rivista Fertility & Sterility si evince che, in presenza di bassi valori di questo ormone, la probabilità di una gravidanza diventa di un terzo. Un altro elemento di maggiore sicurezza di una futura gravidanza è la possibilità di posticipare di qualche giorno l’impianto dell’embrione. Gli analoghi del GNRH, infatti, utilizzati per preparare al prelievo di ovociti, non garantiscono un’adeguata preparazione dell’endometrio, con il rischio di non attecchimento dell’embrione. In più una gravidanza, avviata subito dopo la stimolazione ovarica, potrebbe accentuare il rischio di iperstimolazione ovarica a causa dell’ulteriore produzione di ormoni che comporta».

Anche sul rischio, temuto dalle donne, di sviluppare negli anni successivi un tumore all’ovaio gli specialisti tranquillizzano.

«Non ci sono dati sull’aumento del rischio di tumore in donne che hanno assunto gli induttori dell’ovulazione per la stimolazione ovarica», conferma il dottor Walter Vegetti, responsabile clinico del Centro sterilità della Clinica Mangiagalli di Milano. «I dati di un lieve aumento di incidenza dei tumori registrato in passato si riferivano all’uso di un altro farmaco (citrato di clomifene), che oggi non viene più utilizzato come induttore dell’ovulazione».

Un timore invece reale, ma sottostimato dalle donne, è il rischio di una gravidanza gemellare, soprattutto nelle over-40.

«E’ un rischio piuttosto elevato, soprattutto negli anni passati quando si dovevano impiantare contemporaneamente i tre embrioni, perché la legge 40 vietava il congelamento», fa notare la dottoressa Elisabetta Chelo, ginecologa del Centro Demetra di Firenze. «Oggi, soprattutto nelle donne giovani, si tende a impiantare un solo embrione e congelare i rimanenti, per tutelare la salute della mamma, evitando rischi di ipertensione gravidica e di parti prematuri. Nelle donne più avanti negli anni se ne possono trasferire due. Attualmente le percentuali di successo della PMA nelle over-40 sono intorno al 10-12% per ogni ciclo (nella fascia d’età tra 41 e 43 anni), contro il 30-35% nelle donne con meno di 35 anni».

Un altro timore diffuso nelle donne che affrontano la PMA riguarda la salute del nascituro. «E’ il motivo per cui molte donne, soprattutto dopo 40 anni, richiedono lo screening genetico pre-impianto», aggiunge Chelo. «Dopo questa età è infatti frequente la percentuale di embrioni con un corredo cromosomico alterato, come la Sindrome di Down. I registri canadesi riportano, come unica conseguenza sulla salute del nascituro, una maggiore incidenza di sovrappeso e obesità nei bambini nati da PMA».

E a conclusione non possiamo non citare il tanto temuto rischio, seppure remoto, dello scambio dei gameti. «Con le moderne e sofisticate tecniche dei codici a barre e dei controlli incrociati degli operatori, questo rischio sembra assolutamente scongiurato», conclude Chelo, «anche se l’errore umano può essere sempre in agguato, come dimostrato dal recente caso di cronaca del Pertini di Roma».

di Paola Trombetta

Che fine ha fatto la cicogna

È una Campagna d’informazione sulla fertilità che parte dal pensiero dei bambini. Sono loro infatti i protagonisti del video, diffuso sul web e sui social, presente sul sito:  www.chefinehafattolacicogna.it dove rispondono a domande quali: “Dove si trovano i bambini prima di nascere dai genitori?”, “Come nascono i bambini?”, fino ad arrivare alla domanda: “E quando un bambino non arriva?” che prelude l’introduzione alle problematiche della fecondazione assistita.
La Campagna, realizzata con il contributo di Merck, si propone di informare sui temi legati alla fertilità, alla genitorialità, alla prevenzione. “Che fine ha fatto la cicogna” si inserisce all’interno delle iniziative del  Manifesto per la Fertilità, che rappresenta il documento programmatico ideato in armonia con gli obiettivi del Piano Nazionale del Ministero della Salute, per diffondere una nuova e più consapevole cultura della fertilità nel nostro Paese e per sostenere il progresso scientifico e la formazione professionale degli specialisti. La campagna Che fine ha fatto la cicogna ha ottenuto i seguenti patrocini: AGUI (Associazione Ginecologi Universitari Italiani), AOGOI (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani), CECOS (Centri studio conservazione ovociti e sperma umani), SIA (Società Italiana di Andrologia), SIAMS (Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità), SIDR (Società Italiana della Riproduzione), SIE (Società Italiana di Endocrinologia), SIERR (Società Italiana di Embriologia, Riproduzione e Ricerca), SIFES (Società Italiana di Fertilità e Sterilità e Medicina della Riproduzione), SIGO (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia), Fondazione Cesare Serono.    

P.T.

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