QUANDO L’INTESTINO….SI IRRITA

Anche l’intestino si irrita. Colpa dello stress, della sensibilità ad alcuni cibi, di una eccessiva risposta alle emozioni, dell’uso di farmaci soprattutto antibiotici, di alterazioni della motilità intestinale, della presenza di batteri intestinali, il cosiddetto microbiota, o ancora, secondo le più recenti ipotesi, anche di un “difficile” legame tra i geni che controllano il sistema immunitario e il microbiota stesso e, non ultimo, anche di una possibile gastroenterite (o influenza intestinale). Quando l’intestino è sotto pressione, dà chiari e inconfondibili segnali: dolore addominale spesso associato a gonfiore e gas, disturbi della funzionalità con diarrea o stitichezza o un’alternanza delle due condizioni: tutti sintomi dell’intestino irritabile (IBS), noto anche come colite spastica. Un problema che affligge all’incirca l’11-12% della popolazione, per la maggior parte donne (con un’incidenza di 3 casi su uno rispetto all’uomo), soprattutto di età tra i 20 e i 50 anni. Moltissime le implicazioni: di ordine psicologico, innanzitutto, perché l’IBS, in chi la vive, suscita imbarazzo e inadeguatezza, impoverendo la qualità della vita, e di costi socio-sanitari importanti. «Si stima che un paziente con IBS associato a stipsi abbia un costo complessivo medio di circa 1.700 euro all’anno – dichiara Vincenzo Stanghellini, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università di Bologna e direttore della Unità di Medicina Interna del Policlinico S. Orsola di Bologna – imputabile sia a costi diretti, quali diagnosi ritardate, ospedalizzazioni, mancanza di aderenza terapeutica o cure sbagliate, sia a costi indiretti come assenteismo dal posto di lavoro e scarsa produttività». Problematiche su cui incide anche il misconoscimento della patologia, ovvero uno scambio di identità fra IBS con stipsi o stipsi cronica a causa di una simile sintomatologia, e il conseguente scorretto trattamento o il fai da te del paziente che si somministra per anni farmaci OTC quali pre/probiotici, lassativi e preparati a base di fibre, a fronte di terapie spesso non rimborsate dal Sistema Sanitario Nazionale. Con danni indiscussi sulla patologia iniziale perché il percorso diagnostico corretto prevede l’esecuzione di alcuni esami specifici che confermino l’IBS e escludano altre patologie del tratto gastrointestinale, utili e necessari per differenziare la cura: «Per definire la “giusta” terapia – precisa Giovanni Barbara,  professore associato dell’Università di Bologna, nonché presidente della Società Europea di Neurogastroenterologia – è importante tenere conto ad esempio della presenza di diarrea o di stipsi. Sono molte le novità terapeutiche oggi disponibili a livello mondiale, e anche in Italia, fra cui farmaci innovativi che curano l’intera sintomatologia, quali la linaclotide, ad esempio, che combina un effetto analgesico sul dolore con un miglioramento della stipsi. Mentre a breve saranno disponibili terapie per l’IBS  con diarrea».

Ma i problemi intestinali seri non finiscono qui, perché si può incorrere anche nelle MICI, ovvero nelle malattie infiammatorie croniche intestinali che comprendono la colite ulcerosa (CU) o il morbo/malattia di Crohn (MC). «Si tratta di due malattie – spiega il dottor Fernando Rizzello, ricercatore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna – caratterizzate da un processo infiammatorio che nella colite ulcerosa è limitato alla mucosa del colon e retto, mentre nella malattia di Crohn può interessare potenzialmente qualunque segmento del tratto gastrointestinale. Sono due condizioni che colpiscono soprattutto i giovani tra i 20-30 anni, in una fascia delicata in cui si progetta il futuro e si è nel pieno dell’attività di studio o di lavoro, con diagnosi spesso tardiva, e un decorso che presenta fasi acute, intervallate a periodi di remissione, talvolta non prive di complicanze nel tempo».

La CU e l’MC comunemente si presentano con dolore addominale, diarrea importante, sanguinamento rettale, febbre e perdita di peso. A soffrirne sono all’incirca 200mila italiani che costano ciascuno tra i 19 e i 23mila euro a cui si aggiungono costi indiretti, come la ridotta produttività, i costi previdenziali e pensionistici anticipati. Costi però che non considerano il “peso debilitante”, anche a livello psicologico ed emotivo, delle due malattie: «Sono importanti le limitazioni sulla qualità della vita di relazione e familiare – ha precisato Alessandra Tongiorgi, psicologa dell’Unità di Gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera Pisana. Infatti chi soffre di MICI è spesso costretta a routine rigide per evitare “incidenti” particolarmente sgradevoli, di cui ha timore e imbarazzo a parlarne, rendendo la propria “disabilità” cronica anche una disabilità “invisibile” sulla quale far calare un muro di silenzio, accompagnata da un senso di inadeguatezza». Un problema finora aggravato dal fatto che i pazienti con MICI, pur sottoponendosi a cure mirate con corticosteroidi e immunosoppressori o un antagonista del fattore di necrosi tumorale alfa (TNFα), non riuscivano a raggiungere né a mantenere una remissione della sintomatologia per lunghi periodi, anticipando la necessità di un intervento chirurgico, quale risoluzione alla malattia. Ma una nuova terapia promette di modificare il decorso delle MICI con un sensibile miglioramento di efficacia a lungo termine e della qualità della vita: è infatti arrivata, anche in Italia, vedolizumab, una molecola ad azione antinfiammatoria e selettiva a livello intestinale, destinata a pazienti che non rispondono alle terapie tradizionali con anti-TNF. «Questo farmaco – continua Tongiorgi – ha un tempo di infusione estremamente ridotto, viene somministrato ogni 2 mesi, permettendo al malato e alla sua famiglia una pianificazione della quotidianità assolutamente normale, con un sensibile miglioramento della qualità della vita e del clima familiare».
«L’avvento del nuovo farmaco – ha concluso Salvatore Leone, direttore generale di AMICI Onlus – ha un impatto positivo anche a livello psicologico, poiché fornisce una nuova speranza a pazienti con una storia di fallimenti terapeutici alle spalle, la cui soluzione spesso paventata e definitiva era la chirurgia». Non esclusa, neanche in questo caso, ma certamente molto più ritardata nel tempo.

Le due problematiche descritte non hanno niente a che vedere con il gonfiore che, invece, può anticipare gli spasmi addominali, tipici di un’altra problematica: la  diverticolite o “appendicite sinistra”, come spesso viene definita. Ovvero piccole ernie, grandi come un pisello fino a una nocciola, simili a sacchettini che si possono formare sulla mucosa intestinale, soprattutto nel colon discendente. Una patologia piuttosto frequente, causata anch’essa da un’alterazione della motilità intestinale, con stitichezza, meteorismo e/o sintomi tipici dell’IBS, accompagnati talvolta da febbre, nausea o vomito, dovuta anche e in particolare a un’alimentazione troppo ricca di alimenti raffinati – come carni, grassi e cibi conservati – e povera di fibre tra cui frutta, verdura, legumi, cereali integrali. Un disagio, quello dei diverticoli, da non sottovalutare, ma prevenibile o meglio controllabile con l’attenzione allo stile di vita e soprattutto alla tavola. Ovvero alimentandosi con cibi che apportano molte fibre (da non consumare però durante la fase acuta), una buona idratazione, con cibi cucinati “magri” cioè al vapore, alla griglia o alla piastra, senza l’aggiunta di grassi. A cui si deve aggiungere la regolare e costante pratica fisica, l’abolizione del fumo e la riduzione di farmaci quali aspirina e antinfiammatori: l’assunzione prolungata di FANS può causare la comparsa di disturbi a carico dell’apparato digerente, provocando nausea, vomito, bruciori gastrici e diarrea. Acutizzando così l’infiammazione dei diverticoli. La promessa è di un miglioramento sensibile della sintomatologia.

 

di Francesca Morelli

 

 

LE EMOZIONI? PER META’ MENTALI E PER META’ “DI PANCIA”

Abbiamo anche un secondo cervello; sta nell’intestino e comanda moltissime nostre reazioni, legate soprattutto alle emozioni e stati d’animo quali ansia, stress, buonumore e benessere psicologico in generale. Da cui probabilmente il detto “ragionare di pancia”.

Su questa relazione cervello-intestino si stanno concentrando gli sforzi più recenti della ricerca, tra cui studi congiunti nati dalla partnership fra il Nestlé Research Center e l’Imperial College di Londra, con l’intento di arrivare a capire in quale misura i batteri intestinali, definiti con il termine di “microbioma”, possano influenzare la salute fisica e mentale. Ovvero se questi specifici microrganismi contribuiscano all’insorgenza di alcune patologie metaboliche, come l’obesità e il correlato diabete, ma anche quale sia l’impatto dei metaboliti rilasciati dal microbioma intestinale su metabolismo e salute, su alcuni stati del cervello o su particolari fenomeni centralizzati, come lo stato d’animo e le emozioni. Perché concentrarsi a studiare l’asse intestino-cervello? «La ricerca sul microbioma – ha risposto Jeremy Nicholson, professore in Chimica Biologica presso l’Imperial College – riveste un’importanza mondiale per la salute umana a livello di assistenza sanitaria personale e pubblica, con impatti che si estendono oltre la sfera nutrizionale». (F. M.)

Articoli correlati