IL PRIMO BIMBO NATO CON LA FECONDAZIONE ETEROLOGA

Sarà un’estate memorabile per la mamma di Marco, il primo bambino nato il 14 luglio con la fecondazione eterologa in una struttura pubblica, l’Ospedale Careggi di Firenze. Del resto, proprio un anno fa, la Regione Toscana, dopo la sentenza di incostituzionalità della Legge ‘40 pronunciata dalla Consulta, aveva dato il via libera alla fecondazione eterologa. La gioia di questa mamma è condivisa da una decina di altre mamme in attesa, anche loro ricorse alla fecondazione eterologa, con donazione di gameti femminili o maschili. Come Alessandra, 48 anni, al secondo mese di gravidanza grazie alla donazione di ovociti di una giovane donna, che aveva affrontato con successo la fecondazione assistita alla Clinica Demetra di Firenze.

«Sarò sempre riconoscente a questa donna che non conosco», ha commentato Alessandra. «E già sento totalmente mio il bimbo che ho in grembo: è una gioia indescrivibile, anche perché alla mia età non avrei avuto alcuna possibilità di diventare mamma. E l’idea di andare all’estero non mi convinceva del tutto…».

Eppure negli anni passati, quando la Legge ’40 vietava l’eterologa, più di 4 mila coppie all’anno si rivolgevano ai centri stranieri, affrontando sacrifici e spese di viaggio, oltre ai rischi di approdare in centri poco qualificati. I limiti di legge previsti dalla normativa italiana hanno avuto senz’altro gran peso sulla scelta di rivolgersi a strutture oltreconfine. «Su 11mila trattamenti all’anno di fecondazione assistita, ben 1.500 vengono dall’Italia, soprattutto per effettuare la fecondazione eterologa», afferma la dottoressa Valérie Vernaeve, direttore medico del Gruppo Eugin, con sede a Barcellona, che ha appena inaugurato un centro di PMA a Modena. «In Spagna c’è una tradizione di “donazione generosa” di ovociti da parte delle donne, alle quali vengono rimborsate tutte le spese mediche e di assenza lavorativa per sottoporsi alla procedura di prelievo degli ovociti». In Italia, invece, c’è ancora molta diffidenza alla donazione di gameti, soprattutto femminili.

Da una recente indagine di SWG, società che si occupa di sondaggi, presentata in questi giorni a Milano, in occasione della conferenza: “Fertilità e riproduzione assistita: l’Italia guarda avanti”, e condotta su un migliaio di coppie,  si rileva che tra le principali motivazioni di questa scelta esterofila, ci siano aspetti di carattere legislativo, accanto a quelli burocratici (il 49% ritiene che si vada all’estero per la presenza di procedure e formalità meno complicate e per minori limiti di legge). Mentre, il 36% degli intervistati ritiene che in Italia siano poche le strutture con un’esperienza già consolidata in tema di PMA, soprattutto per quanto riguarda l’eterologa.

Del 68% favorevole alla PMA, ben il 40% prenderebbe in considerazione l’ipotesi di andare all’estero e il 2% lo ha già fatto. Il 26% dei rispondenti afferma, invece, che preferirebbe rivolgersi a strutture presenti in Italia e la fase di apertura legislativa e culturale in atto nel nostro Paese offre nuove prospettive in questa direzione.

«Negli ultimi anni in particolare sono arrivate da noi diverse coppie che avevano tentato per anni di concepire un figlio, rivolgendosi a centri stranieri, senza successo e rischiando addirittura problemi di salute a causa di iperstimolazioni ovariche non adeguatamente controllate», commenta la dottoressa Claudia Livi, responsabile del Centro Demetra di Firenze.  «Nel nostro centro, fin dal 2010 abbiamo iniziato ad eseguire la diagnosi pre-impianto (Pre-implantation genetic Diagnosis PGD), nei casi previsti dalla legge, ovvero per le coppie portatrici di malattie genetiche. Oggi diverse coppie, in età avanzata, che si sottopongono alla fecondazione assistita, ci chiedono, per essere informati sullo stato di salute dell’embrione, come previsto dalle Linee-guida,  di effettuare la diagnosi pre-impianto per verificare eventuali anomalie cromosomiche che, se diagnosticate prima del trasferimento degli embrioni, riducono in maniera significativa il rischio di aborto. In questo caso si parla di Pre-implantation genetic screening (PGS): questo esame è a carico della coppia e il costo è di circa 3 mila euro».

 «Ho voluto effettuare la diagnosi pre-impianto degli embrioni perché ho già 38 anni e non voglio poi dover fare l’amniocentesi o, peggio ancora, un’interruzione volontaria, in caso di anomalie cromosomiche del feto», ha spiegato Maria Pia che sta iniziando un ciclo di fecondazione assistita al Centro Demetra di Firenze, convenzionato col Sistema Sanitario. «Avendo una riserva ovarica piuttosto scarsa, mi hanno consigliato di effettuare questo esame che mi fa stare più tranquilla e dovrebbe anche aumentare il successo dell’impianto».

«Abbiamo ricevuto diverse richieste di diagnosi pre-impianto da coppie portatrici di malattie genetiche, in particolare talassemia, e anche da persone malate», conferma la dottoressa Sandra Pellegrini del Centro Demetra. «In quest’ultimo caso ci sono molte probabilità che, se non si ricorre alla PGD, si abbiano figli anche gravemente malati. Con la PGD si riesce a fare diagnosi di embrioni “portatori” oppure sani che possono perciò essere impiantati. Con queste tecniche possiamo anche aumentare la probabilità di attecchimento dell’embrione, in quanto vengono impiantati solo gli embrioni sani e morfologicamente migliori».

Diagnosi pre-impianto e fecondazione eterologa sono le due “conquiste” delle nuove linee-guida, pubblicate proprio in questi giorni sulla Gazzetta ufficiale. «Negli anni “bui” della legge siamo stati costretti a curare male e col massimo dei rischi per le pazienti», ha commentato il dottor Rubens Fadini, responsabile del Centro di Medicina della Riproduzione Biogenesi, degli Istituti Clinici Zucchi di Monza. «Oggi per fortuna anche l’accesso alla diagnosi pre-impianto degli embrioni consentirà di migliorare i risultati della fecondazione assistita, una strada intrapresa ormai da molte coppie. Secondo i dati ISTAT su 514 mila bambini nati nel 2013, ben 12.187 sono frutto della Procreazione assistita e aumenteranno sicuramente dopo le recenti innovazioni della Legge».

di Paola Trombetta

 

PMA: IL RUOLO DEL MEDICO DI FAMIGLIA

Solo il 3,7% delle coppie infertili si rivolge al Centro di PMA inviato dal proprio Medico di Medicina Generale (MMG); il 18,6% ci arriva grazie al ginecologo o all’andrologo. Internet e TV assumono un ruolo fondamentale, che si attesta al 30%, mentre è il passaparola l’elemento che pesa maggiormente nell’orientare la coppia verso il Centro, con una percentuale pari al 37,6% dei pazienti. Questi i dati emersi dall’indagine effettuata su 990 coppie afferite al Centro di PMA di Catania nel 2014, raccolti dall’Unità di Medicina della Riproduzione di Catania e da Hera Associazione O.N.L.U.S, e presentati nel corso del Congresso “Il Centro di Medicina della Riproduzione e l’integrazione nel sistema sanitario territoriale” appena conclusosi a Catania. Dati che dimostrano come il ruolo del medico territoriale sia ancora ai margini del percorso di PMA, quando invece le coppie chiedono maggiori informazioni e un supporto continuativo al proprio MMG, consultoriale o ginecologo di fiducia. Un quarto della popolazione, infatti, cercherebbe consigli sulla fertilità/sterilità dal Medico di Medicina Primaria; una coppia su sei, vive un’esperienza di difficoltà a concepire un bambino e cerca supporto in determinati momenti della vita. «Il medico di medicina generale è una figura fondamentale nell’orientare e sostenere la coppia infertile», sottolinea il dottor Antonino Guglielmino, presidente del Congresso e direttore dell’Istituto di Medicina e Biologia della Riproduzione UMR/HERA di Catania. «I pazienti, infatti, nella maggior parte dei casi arrivano ai centri di PMA disorientati, privi di esami o con un numero eccessivo di indagini inutili, senza diagnosi precise e, soprattutto, in ritardo rispetto all’età della donna. C’è bisogno di un medico di riferimento sul territorio che migliori il rapporto tra la coppia infertile e il Centro PMA, fornendo supporto e consulenza durante l’intero percorso diagnostico-terapeutico. Ciò consentirebbe di effettuare diagnosi e cure tempestive, risparmiando tempo prezioso».

Gli esperti riuniti a Catania hanno stilato un decalogo per definire il ruolo del medico di famiglia nella gestione della coppia infertile:

1) Informare la donna sull’importanza del “fattore età”, sottolineando che la fertilità ha una “scadenza”;
2) Intervenire sui casi di obesità o sul sottopeso, potenziali cause di infertilità;
3) Ricordare ai propri pazienti la buona abitudine di effettuare periodicamente PAP – test e visita ginecologica per le donne, visita andrologica per gli uomini;
4) Informare sull’importanza di uno stile di vita corretto per preservare la propria fertilità;
5) Segnalare irsutismo e acne come segnali di anovulazione;
6) Dopo un anno di rapporti non protetti, quando la donna ha meno di 35 anni, prescrivere indagini su: riserva ovarica e dosaggi ormonali alle donne; analisi del liquido seminale agli uomini;
7) Inviare immediatamente le coppie allo specialista quando l’età della donna è maggiore di 35 anni e si cerca un figlio da un anno;
8) In caso di infertilità inspiegata, non somministrare farmaci orali di stimolazione ovarica;
9) Proporre immediatamente ai pazienti oncologici di preservare la propria fertilità prima di affrontare le terapie antitumorali;
10) Preparare una scheda riepilogativa di anamnesi con esami/analisi effettuati e storia “riproduttiva” della coppia.     

(P.T.)

Articoli correlati