“SCATTI D’ENERGIA” CONTRO IL TUMORE OVARICO

www.facebook.com/scattidenergia) accompagnato da un messaggio per diffondere informazioni sul tumore all’ovaio.

Per conoscere più a fondo questa malattia e capire quali possono essere le armi per poterla prevenire o, quanto meno diagnosticare tempestivamente, abbiamo rivolto alcune domande alla professoressa Nicoletta Colombo, direttore del Dipartimento di Ginecologia Oncologica Medica dell’Istituto Europeo di Oncologia.

Come si arriva alla diagnosi di carcinoma ovarico?

«Il grave problema del tumore ovarico è l’assenza di sintomi specifici che permettono di diagnosticare precocemente la malattia. Si tratta di un tumore ancora poco conosciuto dalle donne e dalla stessa classe medica, e spesso viene addirittura confuso con quello dell’utero. Da non sottovalutare la persistenza di alcuni segnali, come gonfiore e dolore addominale, la necessità di urinare spesso, sintomi questi che dovrebbero indurre il medico a considerare, tra le varie possibilità, anche un tumore ovarico. A volte si scopre in modo del tutto casuale, durante un controllo ecografico. In alcuni casi, la diagnosi avviene quando la neoplasia è ancora allo stadio iniziale. Non sempre la malattia è preceduta da una cisti ovarica benigna, che poi si trasforma in maligna, o da un problema di annessi uterini, fattori che favorirebbero la diagnosi tempestiva. Gran parte dei carcinomi ovarici, come quelli sierosi di alto grado, sono già metastatici all’origine, in particolare quelli che derivano dalla parte terminale della tuba di Falloppio (fimbria): in questi casi il tumore “sgocciola” e va a cadere sull’ovaio e nel peritoneo (addome). Purtroppo ancora oggi il 75-80% delle diagnosi di tumore ovarico avviene quando è già in fase avanzata (stadio III o IV). L’ecografia non aiuta a identificare la malattia negli stadi iniziali e tutti gli studi su test e screening di diagnosi precoce sono falliti. Quando c’è il sospetto, lo specialista indaga, partendo dalla visita ginecologica, seguita dall’ecografia, dalla TAC pelvica, addominale e toracica e, infine, verificando la presenza del marcatore tumorale CA-125 attraverso un semplice prelievo di sangue».

Che ruolo ha la diagnosi tempestiva sulla prognosi della malattia?

«Quando la diagnosi è molto tempestiva e il tumore viene diagnosticato al primo stadio (confinato all’ovaio) la prognosi è eccellente: a 5 anni la sopravvivenza supera il 90% e possiamo parlare di guarigione. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, già quando si manifestano i primi sintomi, il tumore potrebbe essere allo stadio avanzato (III-IV) Se la diagnosi arriva a questo stadio lo scenario cambia: nel primo caso la sopravvivenza a 5 anni scende al 40%, nel secondo crolla al 20%. Dal momento che la malattia non si manifesta con sintomi specifici, la diagnosi precoce è quasi impossibile, mentre è possibile la diagnosi tempestiva, quella cioè che permette di intervenire con maggiore successo attraverso la chirurgia. In questi casi si tratta di una chirurgia di alto livello: durante l’intervento si asporta tutta la massa tumorale, si tolgono l’utero, le ovaie e le tube e si puliscono tutti gli organi coinvolti per ottenere la migliore prognosi possibile. Bisogna dire che in Italia tutti i Centri sono abilitati a eseguire un intervento di chirurgia su pazienti con tumore ovarico, ma molti lo fanno in maniera inadeguata e questo condiziona pesantemente la prognosi. È importante che le donne sappiano che dopo la diagnosi è fondamentale rivolgersi a Centri qualificati e specializzati nel trattamento di questo tumore».

Un aspetto frequente, e drammatico, del tumore ovarico è la comparsa delle recidive di malattia: in che misura si presentano? Come vengono gestite?

«Le recidive sono, con la diagnosi tardiva, il grande problema del tumore ovarico. In generale dopo la chirurgia la paziente viene sottoposta a cicli di chemioterapia che nella grande maggioranza dei casi funzionano perché questo tumore risponde bene alle terapie. Ma se il tumore è allo stadio III o IV, in oltre il 70% dei casi compare una recidiva. Anche le recidive vengono curate e una paziente può vivere anche molti anni. Se la recidiva è localizzata viene asportata chirurgicamente e/o viene trattata con farmaci chemioterapici, di solito con una buona risposta terapeutica. In definitiva una recidiva quasi sempre esclude la prospettiva della guarigione, ma non priva la donna della possibilità di essere curata».

Che importanza hanno avuto di recente, dopo quasi quindici anni di assenza di novità rilevanti, le terapie mirate anti-angiogenesi?

«Per il tumore ovarico allo stadio I, l’obiettivo principale è la guarigione e il recupero di una buona qualità di vita. Negli stadi avanzati può essere raggiunta da circa il 30% delle pazienti. Per l’altro 70%, l’obiettivo si sposta sulla cronicizzazione della malattia: attraverso l’impiego dei farmaci più efficaci, si cerca di far convivere la paziente con il tumore il più a lungo possibile, assicurandole al tempo stesso la migliore qualità di vita. Quando si presenta una recidiva, si cerca di farla regredire il più possibile e per un tempo più lungo. In tal senso, i farmaci anti-angiogenici (il cui capostipite è bevacizumab) hanno dato un importante contribuito. Somministrati in associazione ai chemioterapici e poi come terapia di mantenimento riescono a tenere sotto controllo la malattia e a procrastinare le recidive. Promettenti risultati anche dagli inibitori di PARP, un enzima che fa sopravvivere il tumore, presente in particolare in quelli con le alterazioni geniche BRCA1 e 2. Si sta sperimentando la combinazione tra l’inibitore di PARP e un farmaco anti-angiogenico».

di Paola Trombetta

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