PATRIZIA TOIA: UNA “DONNA PER LE DONNE” AL PARLAMENTO EUROPEO

Il nuovo Parlamento europeo si riunirà a Strasburgo il prossimo primo luglio. Cosa farà l’Europa per le donne? Ne abbiamo parlato con Patrizia Toia. Già membro della Commissione Industria, Ricerca, Energia, di cui era vicepresidente, l’europarlamentare Pd il 25 maggio è stata rieletta al Parlamento europeo con 87.254 preferenze. 

Cosa può fare l’Europa per le donne?

«Il Parlamento europeo è sicuramente la forza motrice, un luogo privilegiato per la rivendicazione dei diritti delle donne, contribuendo alla loro piena emancipazione, promuovendo una politica delle pari opportunità, ben oltre la dimensione lavorativa. L’uguaglianza fra le donne e gli uomini è infatti formalmente riconosciuta tra i valori dell’Unione, nel desiderio di costruire una società basata sulla piena partecipazione dei generi alla vita economica, sociale, politica culturale degli stati membri».

Anche nel corso della precedente legislatura lei ho lavorato per fare sì che il Parlamento Europeo fosse in prima linea sulle tematiche di genere. Quali questioni femminili adesso intende affrontare con priorità assoluta?

«Ho più volte incalzato,  presentando interrogazioni alla Commissione, e continuerò a farlo ancora con forza, per avere una direttiva che porti a regole comuni e vincolanti sulla questione della violenza di genere. Sappiamo quanto sia urgente dare risposte concrete. La violenza maschile è la prima causa di morte delle donne in tutto il Continente. La Convenzione di Istanbul non basta: è un punto di partenza importante, è l’unico strumento transnazionale giuridicamente vincolante per contrastare e prevenire la violenza sulle donne, e mettere fine all’impunità di chi pratica questa violenza. Ne siamo giustamente fieri e se ne parla come fosse cosa fatta. Ma è uno strumento monco se non si accelerano le pratiche di ratifica: ci sono invece ancora incomprensibili  ritardi. Da quando è stata adottata dal Comitato dei Ministri del consiglio d’Europa nel maggio 2011 a oggi, soltanto 25 stati membri del Consiglio Europeo su 47 hanno siglato la convenzione e solo 11 lo hanno ratificato: tra questi, e ci tengo a citarla con compiacimento, c’è  l’Italia.  Occorre dunque agire velocemente e in maniera concordata. Nella  maggior parte degli Stati membri le legislazioni nazionali non soddisfano gli standard minimi fissati dalla Convenzione».

Occorre fare anche una battaglia culturale…

«Sì: la radice della violenza di genere sta nei retaggi culturali patriarcali diffusi in ogni parte  del mondo, nella concezione della mascolinità estremamente radicata che si esprime attraverso il dominio e il controllo delle donne. Il nostro impegno, a sostegno dei diritti umani delle donne, non può avere confini. Penso alle donne in Africa ridotte in schiavitù per fanatismi religiosi. Penso allo stupro come arma di guerra. Penso alle diffuse violenze contro le donne e le ragazze  in India, da dove arrivano ogni giorno storie agghiaccianti, anche per il grado di impunità di cui godono i colpevoli. Su queste atrocità ho intenzione di presentare un’interrogazione al Parlamento europeo affinché deplori l’insufficiente impegno profuso nella protezione delle donne e richiami il governo indiano all’obbligo di porre fine a tutte le forme che discriminano il genere femminile a livello umano, sociale, economico».

La più persistente disparità esistente è dunque quella di genere. Le  pari opportunità nel nostro Paese rimangono ancora un miraggio. Secondo i dati del Global Gender Gap Report 2013, stilato dal World Economic Forum, il nostro Paese è al 71° posto su 136 Paesi per quanto riguarda la parità di genere, addirittura sotto la Cina, che è al 69° posto della classifica. Solo il 51% delle donne lavora, mentre lo fa il 74% degli uomini.

«E un dato sconfortante. Abbiamo fatto qualche passo avanti nell’indice generale, rispetto agli anni precedenti, ma siamo ancora tra le maglie nere dEuropa. La Spagna è al 30° posto, dopo aver ridotto del 72% il proprio gap di genere, la Francia arriva 45esima (70% di riduzione), e l’Italia 71esima. Il posto migliore per le donne continua a essere il grande Nord dei Paesi scandinavi, in particolare l’Islanda, paese che per il quinto anno consecutivo risulta in cima alla classifica annuale, con l’87% dei punti, seguita da Finlandia, Norvegia e Svezia. Ecco perché ci dobbiamo battere per un’Europa unita. L’appartenenza all’Europa rimane, per noi italiani, fonte di grandi stimoli: il panorama europeo è infatti al suo interno molto diverso, e ci sono tante buone pratiche in diversi paesi da cui possiamo prendere spunto».

Ma l’Italia si posiziona malissimo anche sulla parità di retribuzione: al 124° posto! Cosa prova leggendo questo dati?

«Sono dati inaccettabili. Il divario costituisce un ostacolo a un’eguale indipendenza economica  fra i sessi  e i suoi effetti si risentono anche dopo la fine della vita attiva, quando il divario di retribuzione si trasforma in divario di pensione, accentuando così la maggior esposizione delle donne al rischio di povertà. Vale la pena ricordare che la parità retributiva per uno stesso lavoro è un principio sancito dai trattati dell’Unione fin dal 1957 e trova attuazione nella direttiva 2006/54/CE sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. E’ ora di farla diventare una realtà». 

Ci  può fare un esempio?

«In Europa, il differenziale retributivo si è ridotto solo in misura marginale ed è rimasto quasi immutato negli ultimi anni, e si attesta ancora sopra il 16%. Come dire che, per guadagnare quanto un uomo, una donna dovrebbe lavorare 59 giorni in più all’anno. La Commissione è intervenuta  costantemente su vari fronti. Per contribuire a sradicare le disparità retributive occorre migliorare ad esempio, la trasparenza delle retribuzioni. Nel 2012 il Parlamento belga ha adottato una legge che obbliga le imprese a condurre, ogni due anni, analisi comparative della struttura salariale. Il Governo francese ha rafforzato le sanzioni per le aziende con più di 50 dipendenti che non rispettano gli obblighi in materia di parità di genere. La legge austriaca sulle Pari opportunità impone alle imprese di presentare relazioni sulla parità retributiva. Le disposizioni, introdotte gradualmente, oggi si applicano alle imprese con più di 250, 500 e 1.000 dipendenti, mentre quelle con più di 150 dipendenti dovranno adeguarsi a partire dal 2014. Con la risoluzione dell’8 marzo 2013, il Portogallo ha introdotto misure volte a garantire e promuovere la parità tra uomini e donne sul mercato del lavoro, anche attraverso l’eliminazione dei divari salariali…. Tutti insomma devono fare la loro parte. Se il governo ha un ruolo importante nel sostenere le politiche giuste (congedo di paternità, asili…), sta anche alle aziende creare posti di lavoro, con processi di reclutamento innovativi, nuovi iter per le carriere, politiche salariali trasparenti, che permettano ai migliori talenti di svilupparsi».

Donne nella scienza: un tema a lei caro…

«Sicuramente porterò avanti progetti già iniziati durante il precedente mandato, battendomi con ancora più forza, per implementare l’entrata delle donne nelle posizioni apicali della scienza, inclusi i comitati che controllano l’erogazione dei fondi (a livello privato e pubblico), per raggiungere la parità di genere nella ricerca scientifica. Soltanto il 32 per cento delle lauree scientifiche sono conseguite da donne. Inoltre le donne rappresentano solo il 29 per cento del totale dei ricercatori. Più si sale lungo la scala accademica, minore è il numero di donne che si riscontra: una carenza non solo italiana. Nell’UE solo il 19% delle donne occupa luoghi decisionali accademici, e ancor meno, cioè l’11 %, ricopre posizioni accademiche in ambito scientifico. Ma questo gap non è certo dovuto a scarsa capacità. A parità di preparazione, le donne  hanno il 50% di opportunità in meno di essere assunte. Stereotipi e pregiudizi sono ancora duri a morire, diffusi tra i giovani, tra i genitori e purtroppo anche tra molti insegnanti. Lo spreco di talenti femminili non è più accettabile. L’Europa lo ha capito e siamo riusciti ad inserire il criterio della parità nel programma “Horizon 2020”, che favorisce sviluppo, ricerca, innovazione. Nella convinzione che un’équipe di ricercatori di entrambi i generi migliora la qualità della ricerca, perché la ricchezza delle idee aumenta l’eccellenza scientifica e l’intelligenza collettiva».

Come migliorare le politiche per la salute delle donne?

«Occorre promuovere una maggiore sensibilizzazione a un approccio di genere alla medicina. Da sempre, infatti, la medicina ha focalizzato la sua attenzione esclusivamente sul corpo del maschio, dando per scontato il concetto secondo il quale il corpo femminile andasse valutato e trattato esattamente come quello maschile… Anche gli studi di nuovi farmaci, di nuove terapie, dei fattori che causano le malattie sono stati condotti considerando principalmente i maschi come fruitori, sottovalutando le peculiarità femminili. Le evidenze scientifiche della differenze tra i sessi sono invece numerose. Diverso il modo in cui le patologie li colpiscono, i sintomi, la prognosi, differente la reazione a interventi e cure e la risposta all’utilizzo di farmaci. Per questo è nata la Medicina di genere. L’uomo e la donna possono soffrire della stessa malattia, ma ciascun “genere” la può manifestare con tratti fisiopatologici, clinici, prognostici e terapeutici diversi. Anche un farmaco, somministrato a una donna per una malattia di cui anche l’uomo soffre, può dare effetti terapeutici e collaterali diversi nei due sessi. Le donne, inconsapevolmente, fanno ricorso a farmaci inadatti, poco efficaci, se non addirittura sbagliati, perché non pensati e studiati per loro. Per fare un esempio, la mortalità di donne giovani per infarto acuto è molto più alta che negli uomini. Sa perché? Perché le donne, quando sono colpite da un infarto, non hanno i classici sintomi come il dolore toracico tipico dell’uomo, mentre è presente un dolore diffuso ad altre parti, come alla schiena o al collo. A volte c’è solo difficoltà respiratoria, senso di stanchezza, ansia, vertigine, leggera nausea. Questi sintomi, che non vengono presi in considerazione dai sanitari, ritardano l’intervento e ne peggiorano la prognosi. Spesso la donna infartuata, soprattutto se giovane, al Pronto soccorso finisce in Codice verde e non rosso». 

Il 2014 dovrebbe essere l’Anno europeo della conciliazione tra vita professionale e familiare.  A che punto siamo?

«Tocca un tasto dolente. Per il momento si continua a lavorare ancora sul tema della cittadinanza iniziato nel 2013! L’Anno della conciliazione  è stato accantonato dalla Commissione e attendiamo chiarimenti a proposito. La sfida, a questo punto, consiste nel non “perdere” il movimento di opinione nato in funzione dell’Anno europeo, che ha comunque aperto uno spazio interessante di riflessione e dibattito pubblico.  Le associazioni femminili si sono date da fare in questi mesi per organizzare iniziative, convegni, celebrazioni e hanno deciso di continuare le proprie attività. E io sarò con loro».

Si dirà: di questi tempi manca il lavoro, di conseguenza c’è anche poco da conciliare…

«Ma in realtà non è così. C’è chi non lavora, è vero. Ma ci sono anche tante donne che rinunciano al lavoro perché non riescono a conciliarlo con la vita  familiare. E’ un circolo vizioso. Mentre la crisi non fa che tagliare gli interventi di welfare (asili e non solo) a supporto delle famiglie. Ne sono fermamente convinta: aumentare la presenza delle donne nei luoghi di lavoro è importante, ma non basta se non porta anche a nuove politiche di conciliazione e a un nuovo modo di lavorare, da cui possono trarre beneficio tutti, anche gli uomini. In tal senso occorre dare priorità a politiche family friendly, alla creazione di infrastrutture per la cura dei figli, al care-giving, a nuovi orari di lavoro. Forse sarà necessario aspettare il 2015 per proclamare l’Anno europeo della conciliazione… Nel frattempo si potrebbe cambiare paradigma e non parlare solo di “conciliazione”, ma anche di “condivisione”. Perché tenere insieme lavoro e famiglia diventa più facile se a casa i compiti e le responsabilità sono suddivisi in modo equo fra i due sessi».

di Cristina Tirinzoni

Articoli correlati