Il fenomeno è enorme e va arginato. In Italia, il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni 788 mila) nel corso della propria vita ha subito una qualche forma di violenza: il 20,2% (4 milioni 353 mila) fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) violenza sessuale grave, come uno stupro (652 mila) o tentato stupro (746 mila). Numeri che potrebbero avere un importante sommerso, con i prossimi dati Istat attesi entro fine anno. Violenze che hanno un impatto fisico e psicologico sulla donna, limitandone la volontà e la possibilità di accesso anche a servizi di prevenzione e di salute: quasi la metà di coloro che ne sono state vittima (48,8%) non ha mai preso parte a iniziative di screening sul territorio; il 49,8% si rivolge al medico o servizi di prevenzione (37,2%) “solo in caso di sintomi”. Sono alcuni dei dati di un’indagine su un campione di 207 di donne, tra 35 e 54 anni, afferenti ai centri antiviolenza associati alla Rete D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) che si propone di valutare l’impatto della violenza sulla realizzazione del diritto alla salute delle donne, con particolare attenzione alle pratiche di prevenzione. Dati preoccupanti che hanno promosso la nascita del progetto “La salute è di tutte. Contro la violenza di genere, per il diritto delle donne alla salute”, realizzato da D.i.Re con il supporto di Novartis e il patrocinio della Società Italiana di Cardiologia (SIC).
«L’esperienza di violenza messa in atto dalle figure affettive, nella maggioranza all’interno di una relazione intima – spiega Cristina Carelli, Presidente di D.i.Re – “sospende” da un lato la percezione di sé, spostando il perno di attenzione della donna sull’allerta, sulla necessità di proteggere sé stessa, i propri figli e figlie dalla violenza. La salute diventa quindi una zona d’ombra, insieme ad altri aspetti del vivere: l’urgenza è la sopravvivenza. Dall’altro però quando la donna ha la possibilità di concentrarsi su questi aspetti, coglie una percezione della salute fisica e psicologica cambiate dalla violenza subita, dove il peso psicologico domina su quello fisico in quanto incide sull’identità, sull’autostima, sulla percezione dell’autoefficacia, sul senso di sé. Le donne che arrivano ai centri antiviolenza raccontano di non riconoscersi più in quello che hanno vissuto: traumi e ferite, più o meno gravi, che devono essere “curati” nel fisico, ma ancora più nell’anima».
I centri antiviolenza svolgono un ruolo centrale: sono spazi di protezione e luoghi di ricostruzione personale, sia per il raggiungimento di un migliore benessere fisico (55%) e psicologico, come riferito nel 76% dei casi dopo l’accesso ai centri da oltre il 70% delle donne. «L’indagine – commenta la Professoressa Manuela Stranges, Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania”, Università della Calabria, che ne ha curato la realizzazione – mostra che la violenza agisce come fattore strutturale di impoverimento della salute mentale delle donne: produce ansia, isolamento, senso di colpa, fatica a fidarsi di sé e degli altri, e ne aumenta la vulnerabilità».
I Centri antiviolenza sono un “luogo” prezioso, in grado di fornire strumenti di aiuto alla donna, sia pratici e concreti come la sicurezza, la riconquista dell’autonomia economica, abitativa, relazionale, sia di “cura” che avviene tramite la relazione empatica che si intesse con le “operatrici di accoglienza”. Tutte le operatrici sono professioniste altamente formate con almeno un anno di corso di specializzazione all’interno della Rete D.i.Re, con vari ambiti di esperienze (educazione, socio-sanitario, psicologia, legale), e molto consapevoli degli effetti che la violenza produce, capaci di restituire alla donna una visione di sé positiva, che lasci alle spalle il senso di inadeguatezza correlato alla violenza subita.
«In Italia – prosegue la Presidente Carelli – disponiamo di un sistema antiviolenza formalizzato, anche attraverso un Piano Strategico Nazionale di contrasto alla violenza di genere, che prevede la strutturazione di reti interistituzionali di collaborazione tra enti del terzo settore e istituzioni (Forze dell’Ordine, ospedali, servizi socio-sanitari), in cui i centri antiviolenza ricoprono un ruolo fondamentale. Questi, nella maggior parte dei casi, sono una realtà privata, riconosciuta a livello regionale da albi o elenchi formalizzati in tutte le regioni, che costituiscono i servizi “specializzati”, valorizzati e riconosciuti nel loro operato anche dalla convenzione di Stans, una metodologia che consente alle donne le libertà di scelta. Questo significa che all’interno dei centri antiviolenza non viene fatto nulla senza che sia stato condiviso, compreso, accettato o scelto dalla donna stessa».
L’ accesso ai centri anti-violenza
Ai centri è possibile rivolgersi in libertà e autonomia: anche una semplice telefonata consente alla donna di essere accolta immediatamente in un percorso che prevede l’analisi della situazione riferita, una valutazione del rischio correlata al vissuto e l’attivazione di un “progetto” di rete di supporto personalizzato sul bisogno e sulla singola realtà sperimentata, diversa per ogni donna. L’affiancamento è gratuito e non prevede costi per la donna che si rivolga ai centri antiviolenza sia in autonomia o tramite terzi, ad esempio indirizzate dalle Forze dell’Ordine o dal Sistema Sanitario (Pronto Soccorso, ospedale): soggetti istituzionali che dovrebbero fungere da guida, orientamento e contatto verso il centro antiviolenza, previsto dal sistema antiviolenza ma purtroppo non sempre attuato. «Ed è un problema – sottolinea la dottoressa Carelli – perché le donne devono avere un accesso facilitato ai centri antiviolenza, in quanto nella rete sono l’anello di più alta competenza, soprattutto nella conoscenza del fenomeno, e nell’inquadramento e correlazione della violenza al contesto socio-culturale della persona, sulla valutazione del rischio, e sono quindi capaci di costruire un progetto ad hoc insieme alla donna».
I dati attestano, inoltre, come la prevenzione sanitaria non sia un tema esterno al contrasto alla violenza, ma parte integrante, tuttavia ostacolata da diversi fattori: economici (24%), logistici, familiari, cura dei figli, precarietà lavorativa o disoccupazione. Insieme incidono in modo diretto sulla possibilità della donna di prendersi cura della propria salute o di accedere a percorsi di prevenzione, tanto che circa il 14% delle intervistate non ha potuto ricevere le cure sanitarie di cui aveva bisogno. «Diventa urgente rafforzare il dialogo tra sistema sanitario e centri antiviolenza D.i.Re. – aggiunge la presidente Carelli – per realizzare una formazione diffusa del personale sanitario, capace di riconoscere la violenza, anche attraverso segnali non visibili, non solo come emergenza, ma come fenomeno che attraversa la salute nel tempo, per garantire che ogni percorso di cura, fisico, psicologico e riproduttivo sia fondato sul rispetto e il riconoscimento del vissuto di violenza».
Con questo obiettivo, il progetto “La salute è di tutte” organizzerà nei prossimi mesi una serie di appuntamenti in una selezione di centri antiviolenza della rete D.i.Re su tutto il territorio nazionale, con visite gratuite per le donne e colloqui dedicati alla prevenzione del tumore al seno e delle malattie cardiovascolari, tra le principali cause di morte al femminile, in particolare nelle fasce d’età tra i 35 e i 55 anni. «Il nostro impegno – conclude la Presidente – è orientato anche alla creazione di spazi di (in)formazione delle nostre realtà, ad esempio di prevenzione della salute e degli screening, che siano ponte tra noi e il sistema sanitario, affinché il diritto alla salute sia garantito a tutte le donne, con percorsi di accesso facilitato ai servizi soprattutto per chi è in fragilità. Per affrontare un percorso di uscita dalla violenza le donne devono stare bene e la salute è il primo strumento da presidiare».
Per conoscere i centri antiviolenza D.i.Re.: www.direcontrolaviolenza.it
di Francesca Morelli