Tumore all’ovaio: centralizzare le cure migliora la prognosi

 «Ho scoperto di avere un tumore all’ovaio a 55 anni, precisamente nell’estate del 2012. Avevo perdite vaginali, gonfiore addominale e scarso appetito; mi sono insospettita, sottoponendomi a un’ecografia dal mio ginecologo, che non aveva però rilevato nulla di preoccupante. Continuando a non stare bene, dopo un paio di mesi, mi sono sottoposta a un’altra ecografia che aveva evidenziato una situazione grave e sospetta, consigliandomi di fare subito una Risonanza Magnetica. Da qui è emersa la presenza di un tumore esteso e importante a livello addominale. È stata fatta anche una TAC e deciso l’intervento, effettuato da un chirurgo oncologo addominale. Dopo l’operazione mi sono rivolta alla professoressa Nicoletta Colombo dell’IEO di Milano e la terapia è stata seguita dall’Istituto IDI di Roma. In 11 anni di malattia ho avuto ben sei recidive, trattate con sei cicli di chemioterapia e radioterapia. L’esperienza della malattia mi ha avvicinato all’Associazione ACTO, perché ritengo importante informare le donne per conoscere questo tumore, che non dà sintomi specifici e l’importanza dell’unica prevenzione attraverso i test genetici». Oggi Silvia è da due anni vice-presidente di Acto Italia ETS (www.acto-italia.org). «Il messaggio che vorrei dare alle donne è di fare annualmente i controlli ginecologici, anche dopo la menopausa. È importante ascoltare il proprio corpo e non accettare una diagnosi, se si continua a non stare bene. A volte infatti siamo poco attente ai segnali che il corpo ci manda. Un altro messaggio importante è di rivolgersi a un centro specializzato, dove farsi curare. E questo può cambiare la prognosi della malattia, la qualità della cura e dell’assistenza. Sul nostro portale sono indicati i principali centri di cura nelle diverse regioni. E si possono trovare preziose indicazioni per essere tutelate, non solo dal punto di vista medico, anche dal punto di vista professionale, per conoscere ad esempio eventuali leggi che tutelano le lavoratrici con questo tumore».

L’importanza di essere curati in un centro di alta specializzazione è stato ribadito in occasione  dell’evento che si è tenuto all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), in occasione della Giornata Mondiale del Tumore all’Ovaio (8 maggio): “La centralizzazione delle cure: criticità e proposte”, dove è stata anche presentata nel dettaglio l’attività svolta dall’Ovarian Cancer Center dell’IEO, diretto dalla professoressa Nicoletta Colombo, già responsabile del  Programma di Ginecologia Oncologica dell’IEO e Professore associato di Ostetricia e Ginecologia all’Università Milano Bicocca. Ecco le sue risposte.

Cosa rappresenta questo Centro e quali i suoi obiettivi?
«Si tratta di un centro di alta specializzazione nella cura del tumore all’ovaio che si pone come un modello da seguire e realizzare nelle diverse regioni italiane. Il messaggio che cerchiamo di dare alla paziente con questo tumore è di rivolgersi a un centro specializzato dove esiste un team multidisciplinare che la possa seguire dalle prima fasi della diagnosi fino alle dimissioni. Purtroppo so che in altri centri esistono magari eccellenze in ambito chirurgico, ma aspetti come l’assistenza infermieristica o psicologica, sono carenti. Da noi c’è un team di cui fanno parte, oltre ai chirurghi sia ginecologi che addominali, altamente qualificati, anche professionisti come l’oncologo, l’anatomopatologo, lo psicologo, il sessuologo, e gli infermieri specializzati che seguono il difficile percorso che la donna deve intraprendere. Lavorare tutti insieme per questa patologia è fondamentale e l’assistenza medico-infermieristica è un valore irrinunciabile!».

Un aspetto abbastanza trascurato riguarda il benessere sessuale della donna operata, che incide molto sulla qualità di vita.
«È una problematica molto delicata e poco affrontata nei centri ospedalieri. Nel nostro Istituto esiste da qualche anno un ambulatorio di sessuologia, dove è presente uno psicologo e un ginecologo, entrambi sessuologi, che devono affrontare sia la problematica psicologica, sia quella fisica. Abbiamo anche un ambulatorio specifico per la menopausa per aiutare le pazienti ad affrontare le conseguenze di un intervento, come quello all’ovaio, che provoca una menopausa precoce, trattata con apposite terapie o interventi laser a livello locale. Notiamo comunque una certa reticenza da parte delle pazienti ad affrontare questi argomenti. Per fortuna ci sono associazioni come le ACTO regionali che aiutano le donne ad esternare e affrontare questi problemi, indirizzandole ai centri specializzati».

Un punto cruciale dopo l’intervento chirurgico è l’esecuzione dei test per individuare le mutazioni genetiche: da quelle più comuni BRCA 1 e 2, a quelle più innovative HRD, quest’ultimo rimborsato solo in pochi centri. Perché sono importanti questi test?
«I test che individuano le mutazioni BRCA 1 e 2 i (cosiddetti geni Jolie, dal nome della celebre attrice) sono ormai entrati nella pratica clinica di quasi tutti i centri che si occupano di tumore all’ovaio. Una mutazione di questi geni è presente nel 20- 25% dei carcinomi sierosi di alto grado, la variante più comune di tumore ovarico. In presenza di BRCA 1 il rischio di avere un tumore ovarico può arrivare sino al 50% rispetto all’1.4% della donna senza mutazione. Questi test genetici dovrebbero essere eseguiti di prassi alle donne operate per carcinoma ovarico. Nel caso venga riscontrata una mutazione, il test deve essere eseguito anche ai familiari di sesso femminile e maschile, per valutare il rischio di ammalarsi. Differente invece il test HRD, che indica un deficit dei meccanismi di riparazione del DNA e predice la migliore risposta ad alcuni farmaci come gli inibitori di PARP: questo test deve essere fatto solo sul paziente perché non è necessariamente legato a mutazioni che si possono trasmettere. Andrebbero comunque fatti entrambi i test, perché il loro risultato ci aiuta a definire il migliore iter terapeutico, ma purtroppo non tutti i centri li effettuano».

Quali relazioni tra queste alterazioni geniche e le terapie?
«In presenza delle mutazioni dei geni BRCA 1 e 2 si è dimostrata una migliore risposta ai nuovi farmaci PARP-inibitori, affiancati alla chemioterapia. I dati a lungo termine, dopo 7 anni dall’inizio di una terapia di mantenimento con questi farmaci, hanno evidenziato come il 67% di queste pazienti fossero ancora vive rispetto al 46% delle pazienti non sottoposte a terapia con PARP inibitori. Lo stesso si è visto anche in presenza di positività al test HRD: i dati a lungo termine ci dicono che l’utilizzo dei  PARP inibitori, in associazione a bevacizumab come terapia di mantenimento dopo la chemioterapia di prima linea, può determinare un significativo prolungamento della sopravvivenza libera da progressione: dopo  5 anni dall’inizio della terapia di mantenimento, il 46% della pazienti è viva senza malattia rispetto al 19% delle pazienti che non avevano ricevuto la terapia di mantenimento. Questa terapia ha determinato anche un aumento della sopravvivenza globale a 5 anni dal 65.5% di chi riceve la terapia rispetto al 48.4% di chi non la riceve. Questi dati ci fanno sperare che per alcune di queste pazienti sia stata raggiunta la guarigione, in quanto una recidiva dopo 5 anni è molto rara, anche se possibile».

È un messaggio di speranza che sembra però in contrasto con i recenti dati diffusi dal Data Center di World Ovarian Cancer Coalition che ipotizza entro il 2050 un aumento del 55% di tumore all’ovaio nel mondo, soprattutto nei Paesi emergenti…
«In realtà non possiamo escludere che nei Paesi più poveri, come Africa, Asia, America Latina, Caraibi, si verifichino questi aumenti, a causa dell’importante aumento demografico, delle scarse opportunità di diagnosi e soprattutto della mancata disponibilità di cure mirate. In Italia l’aumento stimato per i prossimi 50 anni dell’incidenza di tumore ovarico è del 3,6% e oggi registriamo annualmente circa 5300 nuove diagnosi, con una mortalità di 3200 casi, verosimilmente destinata a diminuire. Mai come in questi ultimi 4-5 anni infatti abbiamo assistito a una rivoluzione terapeutica che ha cambiato la prognosi di questo tumore. E nella mia carriera, dopo ben 40 anni di professione, l’avvento di queste nuove terapie ha portato entusiasmo e speranza di poter migliorare la cura di questa terribile malattia e potenzialmente guarire un numero sempre maggiore di pazienti».

di Paola Trombetta

Le iniziative in Italia

Oltre all’evento che si è svolto il 3 maggio, promosso da Acto Italia con tutte le Acto regionali (Piemonte, Lombardia, Triveneto, Toscana, Campania, Puglia, Sicilia), numerose sono le iniziative che si snoderanno dopo l’8 maggio. A partire dalla campagna video organizzata da Acto Italia, coinvolgendo clinici e presidenti dell’intera rete Acto per raccontare sia i progressi e le conquiste della medicina nella cura del tumore ovarico, che le iniziative delle Acto a sostegno delle pazienti. Ecco alcuni eventi in programma:

  • 10 maggio: Acto Lombardia alla Civil Week è tra i protagonisti della mostra “Il Diritto alla Bellezza”, con l’inaugurazione, a Palazzo Giureconsulti di Milano, della mostra fotografica di Silvia Amodio che ritrae pazienti oncologiche.
  • 10 maggio: Acto Toscana presenterà il suo progetto caregiver “Anche io esisto” al convegno  scientifico all’Ospedale Careggi.
  • 10 maggio: Acto Triveneto ha organizzato la serata conclusiva del suo progetto “Mani in Pasta”, il corso di pane e pizza per le pazienti, che in serata cucineranno la pizza per gli ospiti.
  • 17 maggio: Acto Sicilia presenterà il suo progetto “Mi sento”, per non trascurare i primi sintomi, alla Dogana Vecchia a Catania.

In aggiunta a queste iniziative di ACTO-Italia ETS, è partita la Campagna di comunicazione “Hai due minuti”, promossa da Astra Zeneca, e presentata in occasione di una tavola rotonda a Roma dell’Ovarian Cancer Commitment (OCC), in collaborazione con la Società Europea di Oncologia Ginecologica e la Rete Europea dei Gruppi di Advocacy sul Cancro Ginecologico.

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