“Comunque mamma”: la storia di una ferita ancora aperta

«La prima volta che chiesi se potevo rimanere incinta avevo circa trent’anni. Avevo pensato tante volte alla maternità, ma mai concretamente come in quel periodo. Nel corso degli anni mi ero già sentita dire dai medici che le gravidanze non erano consigliate alle persone con Sclerosi Multipla. Tuttavia era passato del tempo: la ricerca aveva fatto passi da gigante e avevo da poco conosciuto il mio principe azzurro, Roby, che sarebbe presto diventato mio marito. Non sapevo bene all’epoca come affrontare l’argomento e posi timidamente una domanda alla neurologa da cui ero in cura. La sua risposta mi gelò il sangue: “Ma lei si preoccupa di avere figli?” Mi guardò come se, interessandomi a una possibile maternità, stessi dimostrando una scarsa consapevolezza della mia condizione e del ruolo che spettava ai medici di evitare che la malattia progredisse. Riconosco a quell’episodio un valore di “pietra miliare” che racchiude in poche parole ciò che gli specialisti hanno pensato ogni volta che, in seguito ho parlato del mio desiderio di essere madre…».

Antonella Ferrari, attrice e scrittrice affermata, che da più di 40 anni convive con la Sclerosi Multipla, non si è fermata qui. In tutti questi anni, accompagnata dal marito Roberto, ha provato altre strade, dalla fecondazione assistita, alla possibilità di adottare un bambino: tutte inesorabilmente sbarrate. E tutte con la stessa risposta di pensare solo alla sua malattia. E da questa ferita ancora aperta, nasce pian piano la voglia di riscattarsi e di mettersi in gioco, scrivendo il libro: “Comunque mamma” (HarperCollins Editore): la storia di un sogno negato a lei e a molte altre donne che hanno la sua stessa malattia. Ma al tempo stesso nel libro si documenta un riscatto: riuscire a vivere bene anche senza essere madre di un bimbo, ma sentendosi madre di tanti bambini, e magari di un “bimbo peloso”, come Antonella descrive il suo cane Grisù che oggi ha 17 anni: un “vecchietto” che regala tantissimo amore.

L’abbiamo incontrata in occasione della presentazione del suo libro a Bresso, la città dove vive e dove tutti la conoscono e l’apprezzano. E anche il nostro giornale ha voluto parlare di lei e del suo libro e proporlo come “strenna natalizia”. Perché è una testimonianza che fa riflettere, soprattutto in una ricorrenza come il Natale, in cui viene celebrata una nascita storica, che incarna comunque la sacralità di un evento che purtroppo, ancora a troppe mamme, non è consentito.

Come è stato il tuo percorso di mancata maternità?
«Non posso negare che la ferita sia ancora aperta. E ho sofferto tutte le volte che mia nipote, che è per me come una figlia, o qualche amica è rimasta incinta. Il mio percorso di mancata maternità è stato molto doloroso: la mia malattia, la Sclerosi Multipla, all’epoca poneva degli ostacoli nel programmare una gravidanza, perché i farmaci che assumevo potevano causare gravi effetti nocivi sugli ovociti. Abbiamo chiesto ai miei medici di intraprendere il percorso di fecondazione assistita, ma ci è stato negato (oggi non è più cosi). A questo punto, non rimaneva altro che l’adozione, una strada che abbiamo avvicinato con grandi difficoltà. “A lei un figlio non lo daranno mai”, mi avvertì subito la mia ginecologa. Un’ulteriore batosta, proprio nell’anno in cui mi stavo riprendendo da un periodo terribile che avevo passato sulla sedia a rotelle. All’epoca ricoprivo l’incarico di assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Bresso, la città dove vivo. Mi ero rivolta a un’assistente sociale, mia amica, che mi aveva indicato l’associazione AIBI (Associazione Amici dei Bambini). In quel periodo, durante le presentazioni del mio primo libro “Più forte del destino”, in cui racconto la storia della mia malattia, avevo incontrato molte coppie nelle mie stesse condizioni e con le medesime difficoltà nel realizzare questo desiderio. E notavo una sorta di omertà a discutere di questo argomento. In Tv si sentiva spesso parlare di stepchild adoption, di adozioni per single e coppie gay, ma nessuno citava le persone con disabilità. Ricordo che un giorno una donna mi si avvicinò confidandomi che anche lei stava iniziando un percorso di adozione, ma nel suo caso le premesse erano più facili perché il marito era di un Paese dell’Est e aveva potuto fare le pratiche direttamente in quel Paese. Decisi allora di incontrare una persona che lavorava per AIBI. Mi disse che in alcuni casi erano riusciti a fare adottare un bambino a coppie come noi, ma era stato molto difficile: la prassi delle adozioni, già lunga e difficile di per sé, tendeva a prediligere coppie senza patologie croniche».

Una discriminante che tuttora esiste: chi ha patologie neurodegenerative, o anche un tumore, non può adottare figli?
«Purtroppo è così. Ricordo il caso di una donna che mi aveva raccontato la sua storia, che ho pubblicato nella rubrica sul settimanale CHI, il cui direttore Alfonso Signorini mi ha incaricato di seguire. Dopo essere stata operata di un tumore al polmone, con remissione completa della malattia, Maria e il marito avevano fatto domanda di adozione. Avevano già completato tutte le pratiche burocratiche, gli infiniti colloqui psicologici, e persino preparato la cameretta per il bimbo. Alla vigilia della partenza per il paese da cui proveniva il bambino, gli assistenti sociali avevano notato che indossava il turbante. Maria aveva avuto una recidiva e stava completando la chemioterapia. Le pratiche per l’adozione si interruppero immediatamente e la sua condizione fu considerata “non idonea”. Quel viaggio che tanto avevano desiderato non si realizzò mai. Qualche tempo dopo, con mio grande dolore, il cancro ebbe la meglio sul suo corpo. “E’ morta con la ferita di non essere neppure riuscita a diventare mamma”, mi disse disperato il marito. È una decisione che ritengo assolutamente ingiusta: anche una madre “naturale” può ammalarsi di tumore o di una malattia come la Sclerosi Multipla. Non per questo deve essere privata della possibilità di amare e prendersi cura di un figlio!».

Il tuo libro è una forte dichiarazione di rispettare il diritto alla maternità per tutte le donne, anche quelle con malattie. Concretamente cosa vorresti fare per “cambiare” la situazione attuale?
«Con il mio libro ho voluto “denunciare” questa ingiustizia! E spero almeno di riuscire nell’intento di sensibilizzare non solo le donne, ma le istituzioni su questa problematica. Sono convinta che serva un’azione collettiva di riforma della legge sulle adozioni. Il mondo è cambiato e non è detto che il modo migliore per crescere un bambino debba rispondere alle caratteristiche richieste 30/40 anni fa. In realtà oggi la legge non vieta esplicitamente nulla. Il problema è la sua interpretazione: troppo spesso nella pratica, la persona malata viene penalizzata. Di una cosa sono certa: credo che alla base di tutto ci sia l’amore: chi è disposto ad amare può tranquillamente crescere un figlio, anche nelle difficoltà. Sono cattolica praticante e grazie anche all’aiuto di alcuni sacerdoti sto cercando di accettare la mia mancata maternità, ma non è facile. È come mettere un “cerotto” su una ferita che non si rimargina mai. Non a caso l’ultimo capitolo del mio libro si intitola appunto “Cerotto”. Il mio cerotto potrebbe essere forse la lotta per una riforma della legge relativa alle adozioni? Vorrei tanto che non si discriminasse più chi ha una malattia e sogna di diventare genitore. Nell’interesse del bambino, penso che sia il momento di non cercare “genitori perfetti”, ma persone che sappiano amarlo… Mentre ho scritto quest’ultimo capitolo ho pianto, pensando a quel bambino che non è mai arrivato. Ma poi accarezzo il mio cane, Grisù, e penso a Mia e Tommaso, i figli di mia nipote, e all’amore che provo per loro. Quando ho preso in braccio Mia per la prima volta, la cullavo come quando mia nipote Federica era piccola. Aveva lo stesso profumo di borotalco: quel profumo che mi accompagnerà sempre e forse riuscirà a curarmi…».

 di Paola Trombetta

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