Gli effetti neurologici post-Covid, possibili anche dopo mesi

Non c’è malattia che non abbia conseguenze, strascichi che si possono verificare durante la manifestazione, come pure nel medio-lungo termine. Anche in caso di Covd-19, come è stato chiarito in occasione della Settimana Mondiale del Cervello, appena conclusa, con complicanze prevalentemente neurologiche, tanto che ormai è possibile parlare, secondo gli esperti, di “NeuroCovid”. È ormai noto che l’infezione può colpire sia il sistema nervoso centrale – con cefalea, vertigini, disturbi dello stato di coscienza (confusione, delirium, fino al coma), encefaliti, manifestazioni epilettiche, disturbi motori e sensitivi, maggiore incidenza di ictus con più severità – sia il sistema nervoso periferico con perdita o distorsione del senso dell’olfatto, del gusto, neuralgie e sindrome di Guillan-Barrè (neuropatia infiammatoria). Lo si è osservato in un primo studio effettuato negli ospedali di Wuhan nei mesi di Gennaio-Febbraio 2020 su 214 pazienti ricoverati, di cui il 36% con complicanze neurologiche, e tassi del 45% nei pazienti più gravi: sintomi suffragati anche da casi italiani.

«I meccanismi di queste complicanze – spiega Carlo Ferrarese, Direttore della Clinica Neurologica, Ospedale San Gerardo di Monza – sono molteplici: in una minima percentuale possono essere legati alla penetrazione del virus nel cervello (attraverso il sangue o tramite i nervi cranici), o più di frequente ad alterazioni della coagulazione innescate dal legame del virus con la parete dei vasi o all’iperproduzione di sostanze (citochine) che inducono uno stato di infiammazione generale».
Ma cosa accade, invece, nel periodo post-Covid? È il quesito, ancora in attesa di conferma definitiva, che i clinici, soprattutto i neurologi, si stanno ponendo e a cui per il momento è possibile dare solo una risposta parziale, preliminare. «Nella fase successiva alla malattia – continua il professore – abbiamo osservato vari problemi quali debolezza (astenia) protratta, disturbi di concentrazione, a volte di memoria, che potrebbero essere collegati anch’essi a piccoli danni vascolari o infiammatori del sistema nervoso, sia centrale che periferico, con ripercussioni a distanza. Questa sintomatologia viene spesso trascurata, mentre andrebbe accuratamente studiata, anche con adeguate indagini strumentali, e monitorata nel tempo». Ma non sono questi i soli postumi segnalati: altri effetti collaterali a distanza, insorti dopo diverso tempo dal superamento dell’infezione da Covid-19, con impatto psichico o psicologico, possono riguardare un deterioramento cognitivo, comprese manifestazioni come depressione, ansia, labilità emotiva e, a livello neurologico, malessere, affaticamento, disturbi di concentrazione, disturbi delle sensibilità, alterazioni del sonno, mialgia, mal di testa. Complicanze più gravi sembrano essere meno comuni, ma comunque segnalate, a carico dell’apparato cardiovascolare (endocarditi, miocarditi, scompenso cardiaco), respiratorio (anomalie della funzione respiratoria, fibrosi polmonare, aggravamento BPCO), renale (glomerulonefriti, vasculiti renali, trombosi alle arterie renali), o a livello cutaneo (eruzioni cutanee, alopecia), talvolta con comparsa anche combinata.

Per fare chiarezza su questi aspetti “a distanza”, è stato avviato uno studio, il COVID-NEXT, in corso di pubblicazione e tuttora attivo a Brescia: «La percentuale di malati precedentemente ospedalizzati, con riferiti disturbi a lungo termine – dichiara Alessandro Padovani, Direttore della Clinica Neurologica, Università degli Studi di Brescia – è stata superiore al 70%: i sintomi prevalenti sono stati astenia, disturbi cognitivi, di concentrazione e del sonno, mialgie con punte superiori al 30%, seguite da disturbi depressivi, perdita dell’autonomia, instabilità, disturbi della vista e formicolii. Abbiamo inoltre potuto osservare una relazione stretta fra numero dei sintomi neurologici, gravità dell’infezione da Covi-19, età avanzata e stato di salute, cioè l’elevata multi-morbidità all’ingresso e alla dimissione. Anche pazienti ospedalizzati, che non hanno manifestato una gravità elevata della malattia, in oltre il 30% dei casi hanno sviluppato sintomi insorti nella maggior parte dei casi a 6 mesi dall’infezione COVID, con prevalenza di disturbi depressivi/ansiosi, disturbi del sonno e di concentrazione».

Lo studio, ancora in corso, ha l’obiettivo di differenziare i sintomi di un decorso prolungato della malattia da COVID-19, definite appunto LONG-COVID, dalle sequele a seguito della risoluzione dell’infezione acuta da SARS-CoV-2, le cosiddette implicazioni POST-COVID. Questa informazione sarà infatti utile per “ottenere un consenso” sul periodo di tempo in cui definire le fasi post-acute e a lungo termine di COVID- 19, come anche distinguere gli effetti sulla salute legati esclusivamente all’infezione da SARS-CoV-2 dalle conseguenze delle procedure e dei trattamenti richiesti per l’assistenza di persone con malattie gravi di qualsiasi eziologia. «A tal fine, così come in molti centri neurologici italiani, sono attivi centri di assistenza post-COVID-19 – continua Padovani. – Anche presso il nostro Centro NEUROCOVID da maggio dello scorso anno abbiamo istituito un servizio ambulatoriale, sia per pazienti ospedalizzati sia per pazienti non ospedalizzati, che offre anche la possibilità di un supporto psicologico nonché di un team per la presa in carico dei disturbi cognitivi».

In corso, a livello internazionale, ci sono altri studi che hanno l’intento di valutare con maggiore accuratezza l’esatta incidenza e i meccanismi alla base delle diverse complicanze neurologiche: tra questi anche una ricerca italiana– NEUROCOVID – iniziata nel marzo del 2020 dell’Università di Milano-Bicocca, Università degli Studi di Milano e Istituto Auxologico Italiano, patrocinata dalla SIN con la partecipazione di 50 Neurologie distribuite nelle varie regioni, e di San Marino. «Al momento – precisa Ferrarese – le neurologie stanno registrando tutte le possibili complicanze neurologiche insorte in pazienti ospedalizzati nella fase acuta della malattia, in quelli trattati a domicilio dai medici di medicina generale e in quelli segnalati ai neurologi dei centri partecipanti allo studio. I pazienti arruolati verranno seguiti a distanza di 3 e 6 mesi per documentare l’evoluzione della complicanza neurologica con un follow-up previsto fino a dicembre 2021». I dati di questo studio saranno confrontati con analoghe ricerche promosse da altre società neurologiche, con il coordinamento di una task force dell’European Academy of Neurology, che cura la creazione di un registro europeo, chiamato ENERGY, che a sua volta sarà raffrontato con il registro americano della Neurocritical Care Society, l’US GCS-NeuroCOVID: obiettivo dare risposte certe alle implicazioni a breve-lungo termine di Covid-19 sotto tutti gli aspetti neurologici. «Come per gli altri campi di ricerca coinvolti nello studio di questa nuova pandemia – conclude Gioacchino Tedeschi, Presidente della SIN – anche la Neurologia ha messo in campo grandi risorse e strumenti adeguati e soprattutto si è creato uno spirito di collaborazione tra i diversi centri che potrà portare a importanti risultati».

di Francesca Morelli

Il Covid non “dimentica” i pazienti con ictus

Anche A.L.I.Ce. Italia Odv (Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale) è dalla parte dei vaccini: in occasione della Settimana Mondiale del Cervello ne ha ribadito l’importanza per i pazienti affetti da malattia cerebrovascolare, al fine di prevenire rischi più gravi associati all’infezione da Covid, e altresì raccomanda l’aderenza terapeutica, sia ai farmaci che ai controlli periodici, per un attento monitoraggio e controllo dell’ictus. Infine raccomanda di rivolgersi, sempre e comunque, ai servizi di emergenza in presenza di chiari e riconoscibili sintomi di ictus, che colpisce ogni anno nel nostro Paese circa 150 mila persone. Una raccomandazione, quella di A.L.I.Ce. Italia Odv, fondata su due importanti evidenze: l’infezione da SARS-CoV-2 determina un aumento della coagulabilità del sangue, comportando quindi un rischio di ictus ischemico, con una frequenza che raggiunge 8 pazienti su 100 affetti da Coronavirus. Ictus che, se avvengono in pazienti Covid, sono di maggiore gravità rispetto a quelli di persone non infette. La seconda si riferisce a un dato numerico: durante la prima ondata pandemica, per timore di possibili rischi di contagio in Pronto Soccorso o nei Reparti, si è registrata una riduzione dell’ospedalizzazione del 40%-50% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno o comunque un ritardo nella possibilità di intervenire. Eventi che di norma si traducono in una prognosi peggiore e, quindi, in esiti più invalidanti della malattia vascolare cerebrale. «La pandemia da Covid-19 – dichiara Nicoletta Reale, Presidente di A.L.I.Ce. Italia Odv – non deve distogliere l’attenzione dalle malattie cerebrovascolari che continuano ad essere presenti. È necessario che, anche in questo periodo, non si verifichi un ulteriore calo degli accessi al Pronto Soccorso in caso di potenziali “campanelli d’allarme” riconducibili a questa patologia: le Unità Neurovascolari o Centri Ictus (Stroke Unit) sono riusciti fin dall’inizio a rispondere al meglio alla situazione di emergenza, garantendo percorsi diagnostici e terapeutici efficienti ed efficaci, grazie alla differenziazione di “corsie” dedicate, con estrema attenzione, al distanziamento e all’isolamento tra pazienti risultati positivi al Covid e quelli negativi. In caso di ictus, dunque, non si deve rimanere a casa, per un duplice vantaggio: la possibilità di usufruire delle terapie disponibili ed evitare conseguenze molto più gravi dovute a possibili danni collaterali a cui spesso, perdendo tempo prezioso, non si può rimediare. Infine una tranquillità per i pazienti: in ospedale i medici ora sono vaccinati, una “sicurezza” in un periodo che resta ancora difficile».  F.M.

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