Procreazione assistita: il test che aiuta il buon esito

A volte concepire, nonostante un programma di fecondazione assistita (PMA), può essere un problema, perché sul buon esito dell’impianto possono intervenire diversi fattori – quali squilibri ormonali, un elevato stato infiammatorio, un’eccessiva risposta immunitaria a un corpo estraneo (l’embrione fecondato) – contribuendo ad alterare le ottimali condizioni dell’endometrio, cioè la mucosa che riveste internamente l’utero, ad accogliere l’embrione, farlo maturare e portare così a buon fine la gravidanza. Oggi ciascuna di queste possibili e potenziali condizioni di insuccesso della PMA possono essere efficacemente diagnosticate e, con esse, anche la terapia più adatta per riportare l’endometrio alla normalità. Il tutto è possibile grazie a un esame ambulatoriale poco invasivo, minimamente doloroso e che non richiede anestesia: si attua, infatti, su un campione di mucosa (una biopsia tissutale) dell’endometrio che può essere prelevata nel corso della visita ginecologica, da un medico specializzato in PMA.

«Si chiama EGEA test – spiega la dottoressa Elena Repetti, medico genetista e Chief Genetics di Impactlab, un’azienda internazionale che offre servizi di diagnostica di alta specialità con sede operativa presso la Fondazione Filarete dell’Università di Milano – e fornisce un quadro dell’espressione genica, ovvero dell’attività dell’endometrio nel momento della post-ovulazione, la fase del ciclo mestruale nella quale dovrebbe avvenire spontaneamente la fecondazione, fornendo importanti informazioni sulle possibili cause del fallimento dell’impianto. Cause che non siano imputabili all’età avanzata della donna, condizione che fisiologicamente abbassa le probabilità di successo della PMA come anche di una normale fecondazione, né a anomalie anatomiche o a alterazioni morfologiche dell’embrione».

In funzione della capacità e potenzialità diagnostica, l’EGEA test è indicato a quelle donne che devono effettuare o che stanno seguendo un percorso di fecondazione in vitro e, soprattutto, a coloro che hanno già effettuato diversi tentativi (almeno un paio) di impianto non andati a buon fine. Non si tratta dunque di un test per valutare eventuali problemi di infertilità o per stabilire il momento più propizio di una gravidanza spontanea. «EGEA è un test genetico – precisa la dottoressa Repetti – che studia l’Rna, in particolare l’espressione di 30 specifici geni, i più importanti nel processo di fecondazione, alcuni dei quali sono indice della qualità del lavoro dell’endometrio e gli altri delle possibili cause dei fallimenti, anche multipli, dell’impianto. Si tratta di una serie di geni, selezionati dopo l’analisi di studi scientifici e approfondite ricerche di laboratorio, che includono quelli riferibili all’aspetto ormonale, soprattutto estrogenico e progestinico, fondamentale per la buona interazione tra endometrio ed embrione; geni che danno informazioni in merito alla funzionalità vascolare (angiogenesi), o ancora informazioni circa la giunzione cellulare, ovvero a una serie di reazioni utili e necessarie a facilitare l’adesione cellulare tra endometrio ed embrione». Fino ai geni che identificano i fattori di rischio inizialmente citati.

Un esame che vale per “due”
Infatti attraverso un solo test e un unico prelievo bioptico è possibile analizzare e ottenere una duplice indicazione, entrambe contenute nel referto che viene consegnato al medico di riferimento e/o alla paziente. «Sul materiale bioptico endometriale – continua il medico genetista – viene fatto innanzitutto un vero e proprio esame istologico. L’anatomopatologo descrive le caratteristiche morfologiche tissutali, immuno-istochimiche del campione prelevato che potrebbe già fornire alcune possibili indicazioni su una presunta causa di insuccesso dell’impianto. Ad esempio l’istologico potrebbe evidenziare un’endometrite, un’infiammazione cronica dell’endometrio o altre caratteristiche/condizioni spia di incompatibilità con un impianto.

A queste prime informazioni si aggiunge il profilo genetico dei 30 specifici geni». L’analisi, eseguita sull’RNA estratto dal campione di mucosa e sui geni corrispondenti, consente infatti di disegnare in maniera molto precisa e accurata, una duplice curva fatta di picchi e linee: la prima corrispondente a un endometrio “sano”, che potrebbe accogliere un embrione, e una seconda che profila invece lo stato di sofferenza del campione esaminato, rivelando una condizione di positività o di negatività, rispetto a uno stato di normalità. «Il campione negativo – aggiunge la specialista – è quello in cui picchi e linee rientrano in un range di “normalità”. In questo contesto, di norma, non dovrebbe essere richiesta una terapia. Si definisce invece positivo, ad esempio, un campione che presenta un andamento differente rispetto al controllo con picchi troppo alti o troppo bassi. Si tratta di informazioni preziose, fondamentali, per il ginecologo che ha una visione chiara di come l’endometrio si sta comportando in quel determinato momento e di come eventualmente intervenire terapeuticamente ricreando le migliori condizioni possibili affinché l’endometrio possa recepire e quindi impiantare l’embrione».
Ad esempio se il problema è una bassa risposta recettoriale, il ginecologo potrà rimodulare il dosaggio ormonale aumentandolo, se invece il “fattore negativo” dipende da picchi infiammatori elevati si potrà procedere a una terapia antiinfiammatoria o cosi via.

La “cura”, grazie all’apporto e alle informazione dell’EGEA test, verrà dunque scelta su misura e in funzione di quanto emerso dalla curva e dal profilo genico dei 30 geni indagati in quella paziente. «EGEA test – conclude Repetti – rappresenta un supporto per il ginecologo nella scelta dell’opzione terapeutica mirata per quella donna, in modo da incrementare le chance per il buon esito dell’impianto». Sebbene vada sottolineato che EGEA test non predice il buon successo della PMA, ma suggerisce le modalità più adatte affinché essa avvenga nel migliore dei modi e con le maggiori garanzie.
Il test, dunque, va effettuato due/tre giorni dopo l’ovulazione, richiede circa 20 giorni per la refertazione e dopo una terapia, che dura mediamente un ciclo, la PMA potrà essere riprogrammata nei 2-3 mesi immediatamente successivi.

di Francesca Morelli

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