Una terapia universale contro il virus dell’Epatite C

È un obiettivo molto ambizioso, proposto dall’OMS: eliminare entro il 2030 una malattia come l’epatite C, principale causa di cirrosi epatica (30-35%) e di carcinoma (5%), eradicando definitivamente il virus con terapie mirate, oggi disponibili. Proprio in questi giorni l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha approvato la rimborsabilità della combinazione di due molecole (grazoprevir ed elbasvir), in grado di eliminare definitivamente il virus in 12/16 settimane di trattamento. Per fare il punto su questa malattia e le sue ripercussioni, in particolare nelle donne, abbiamo intervistato Gloria Taliani, professore ordinario di Malattie Infettive alla Sapienza Università di Roma, intervenuta di recente al convegno AHEAD (Achieving HEalth through Anti-infective Defense), promosso da MSD-Italia.

gloria-talianiQuale incidenza ha l’epatite C nella popolazione e se esistono differenze “di genere”?
«L’incidenza dell’epatite C in Italia oggi è trascurabile, e ciò significa che l’incremento dei nuovi casi nella popolazione generale non rappresenta un motivo di preoccupazione. Il problema è rappresentato dalla massa dei soggetti che hanno contratto il virus nel passato, il cui numero esatto è sconosciuto. I malati  “stimati” potrebbero essere più di un milione, di cui molti sono asintomatici e hanno l’infezione da decenni. Un esempio le donne, oggi sessantenni, che hanno contratto il virus magari trent’anni fa, a causa ad esempio di procedure ginecologiche con strumenti poco sterili. Oggi il virus si trasmette soprattutto tra i tossicodipendenti, in chi ha rapporti promiscui, nelle persone sieropositive e si è decisamente abbassata l’età. Ciò che sappiamo è che non esistono differenze significative di genere».

È possibile prevedere uno screening per individuare precocemente il virus?
«Attualmente il test viene prescritto in due categorie di soggetti: nei pazienti con alterazioni degli esami di funzionalità epatica, e questo permette di formulare una diagnosi del danno di fegato. Il test si richiede inoltre nei soggetti che riferiscono fattori di rischio per i quali l’esposizione al contagio è significativa: ad esempio le persone che hanno fatto trasfusioni prima del 1989; i tossicodipendenti, gli omosessuali maschi, i pazienti con infezione da HIV. Solitamente viene fatto anche alle donne in gravidanza, perché il rischio di trasmissione dalla madre al neonato è di circa il 6%. Dal momento che l’infezione, acquisita alla nascita, diventerà cronica, è intuitivo che per prevenire il rischio di trasmissione il test andrebbe consigliato nelle donne fertili alle quali offrire la possibilità di essere curate prima del concepimento».

Di recente l’AIFA ha approvato la rimborsabilità di una combinazione di farmaci (grazoprevir e albasvir) in grado di eradicare il virus. Ci spiega come agiscono?
«Si tratta di due principi attivi che inibiscono due proteine (proteasi e NS5A) che sono necessarie per la replicazione del virus. La combinazione di questi due farmaci, somministrati in una singola compressa, ha un effetto molto potente, in grado di eradicare il virus dall’organismo dopo 12/16 settimane di trattamento. Possiamo dunque parlare di “guarigione definitiva” dall’epatite C con una singola compressa giornaliera. Questa nuova combinazione di farmaci ha un profilo di sicurezza e tollerabilità molto favorevole e può essere usata anche nei pazienti con insufficienza renale o in dialisi. L’Aifa ne ha da poco approvato la rimborsabilità: dipende ora dalle singole Regioni rendere il farmaco disponibile per la prescrizione».

C’è differenza nella risposta, tra uomo e donna, a queste terapie?
«In realtà con questi nuovi farmaci non c’è differente risposta nei due sessi. La diversità di genere era invece ben nota nell’epoca di utilizzo dell’interferone, al quale la donna in età pre-menopausale rispondeva meglio dell’uomo. Ma attualmente i tassi di risposta sono talmente elevati, che i predittori di fallimento sono pochi, e tra questi il genere non è rilevante. Unico “limite” di queste terapie è che la donna non le può assumere in gravidanza, perché non si conoscono gli effetti che potrebbero avere sul bambino che nascerà».

di Paola Trombetta

 

La prevenzione approda in carcere

Il carcere come luogo di informazione, educazione e prevenzione di infezioni come l’epatite C, una malattia che interessa fino al 38% dei detenuti. È l’obiettivo di ENEHIDE (EducazioNE e prevenzione dell’Hcv negli Istituti Detentivi), un progetto pilota che è partito il 24 marzo nella Casa Circondariale di Viterbo, promosso da EpaC Onlus e SIMSPe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), con il patrocinio del Ministero di Giustizia, del Consiglio della Regione Lazio e dell’Asl di Viterbo. Si tratta di una serie di attività, eventi e distribuzione di materiale, tra cui un kit con spazzolino e dentifricio, per trasmettere un messaggio di prevenzione di questa malattia, con regole di igiene personali. «Uno dei punti di forza sarà la presenza di mediatori linguistico-culturali che ci consentirà di stabilire una relazione anche con le persone detenute straniere, che sono circa il 60%», puntualizza Teresa Mascolo, direttore della Casa Circondariale di Viterbo. Il progetto pilota durerà sei mesi. «Il nostro obiettivo è diffondere questo modello a tutte le realtà di detenzione italiane», conferma Massimiliano Conforti, vice-presidente di EpaC Onlus. «Con ENEHIDE ci proponiamo di dimostrare che l’informazione giusta produce risultati in termine di maggiore prevenzione e controllo della malattia».  P.T.

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