«Ho rischiato il trapianto di fegato, e invece…»

«Il sintomo più fastidioso era il prurito. Ho vissuto per due anni come fossi vestita con un abito di spilli, con dolori lancinanti. Il mio colorito era olivastro: la nausea e la stanchezza debilitavano il mio fisico, tanto da farmi pensare di avere un tumore al fegato. E le analisi del sangue, con transaminasi alterate e fosfatasi alcalina molto elevata, potevano far pensare a una prognosi davvero infausta. Del resto gli specialisti confermarono questa diagnosi. Lo stesso ospedale, in cui avevo effettuato la biopsia epatica, mi aveva indirizzato al Centro specializzato, dove mi misero addirittura in lista di attesa per il trapianto. Per fortuna, nel frattempo, avevo incontrato un giovane medico che mi consigliò di rivolgermi al professor Domenico Alvaro, gastroenterologo all’Università La Sapienza di Roma, che finalmente si “prese cura” della mia malattia. Attraverso specifici esami del sangue, tra cui gli anticorpi antimitocondrio, aveva in poco tempo individuato la diagnosi esatta. Si trattava di “Colangite Biliare Primitiva” (CBP), una patologia del fegato autoimmune, che aveva portato a una totale fibrosi del tessuto epatico, compromettendo la funzionalità dell’organo stesso. La cura da lui prescritta era semplice e di facile assunzione: acido ursodesossicolico, con aggiunta di Eutirox, per sopraggiunti problemi alla tiroide. In quattro mesi non avevo più prurito, mangiavo e dormivo normalmente. Oggi sono guarita e non penso più alla mia malattia. Dalla sensazione di morte sono passata alla vita. E mi ritengo davvero fortunata! Avrei potuto subire un inutile trapianto di fegato, per imperizia dei medici ai quali mi ero rivolta. Trovare lo specialista competente e ricevere la diagnosi e la cura giusta mi ha salvato la vita!»

Come Assunta Borzacchiello (nella foto), napoletana che vive a Roma, con un lavoro di responsabilità al Ministero della Giustizia, sono circa 13mila i pazienti in Italia che soffrono di questa malattia autoimmune che nel 90% dei casi colpisce le donne.

«Grandi passi sono stati fatti nella diagnosi e nel trattamento di questa patologia», conferma il professor Domenico Alvaro, ordinario di Gastroenterologia all’Università La Sapienza di Roma. «Un tempo si diagnosticavano questi pazienti quando la malattia era già in fase avanzata di cirrosi o addirittura con le complicanze della cirrosi (ascite, emorragia digestiva). Oggi la diagnosi viene fatta quando la malattia è asintomatica, soprattutto nei centri specializzati e da medici informati. Il trattamento di prima linea è l’acido ursodesossicolico, al quale rispondono il 60-70% dei pazienti, mentre il 30-40% non ha una risposta soddisfacente. Per questi pazienti “non responder” si sta valutando l’utilizzo di farmaci di seconda linea, in particolare l’acido obeticolico, che sarà a breve approvato dall’EMA (Agenzia Europea del Farmaco). È già stato utilizzato in diversi studi controllati di fase III, ai quali hanno partecipato specialisti da tutto il mondo, compresi gli italiani. I risultati più importanti sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine».

«Il parametro più utilizzato per valutare l’efficacia della terapia è la riduzione della fosfatasi alcalina al di sotto di 1,67 volte il valore normale», sottolinea Annarosa Floreani, professore associato del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche dell’Università di Padova. Ovviamente tanto più precoce è la diagnosi, quanto più efficace sarà la terapia. Rispetto a 20 anni fa le possibilità diagnostiche sono oggi notevolmente migliorate. Ci sono marcatori di riferimento che si individuano con semplici esami del sangue. Il primo campanello d’allarme potrebbe essere l’aumento della fosfatasi alcalina: si sospetta la malattia quando il valore supera di una volta e mezza quello di riferimento. Di fronte a questo dubbio si procede poi con la ricerca dell’anticorpo antimitocondrio, positivo nel 95% dei pazienti. Per la diagnosi della malattia ci sono poi i sintomi specifici, in particolare prurito e stanchezza. La malattia colpisce soprattutto le donne, in età menopausale (50-55 anni): il brusco calo degli estrogeni altera infatti la risposta immunitaria dell’organismo che non riesce a controllare alcuni antigeni. A volte compare in presenza di altre malattie autoimmuni, come la sindrome di Sjogren, l’artrite reumatoide, l’ipotiroidismo autoimmune, tutte malattie a prevalenza femminile. C’è sicuramente una predisposizione genetica, anche se non sono ancora stati individuati specifici geni responsabili della malattia. Ci sono poi fattori scatenanti: nel tempo sono state valutate possibili correlazioni con l’uso di coloranti per capelli e smalto per unghie. Tutte queste valutazioni sono comunque importanti per arrivare a una diagnosi precoce e mettere in atto una terapia che può risolvere la malattia».

di Paola Trombetta 

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