ALZHEIMER: LE RECENTI SCOPERTE DI UN GRUPPO DI RICERCA VERONESE

In occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer (21 settembre) abbiamo incontrato la dottoressa Gabriela Constantin, docente di Patologia Generale all’Università di Verona, nonché prima donna in Italia a ricevere, nel 2003, il Premio Rita Levi Montalcini per gli studi condotti sulle malattie infiammatorie del cervello. Al gruppo di ricerca veronese, che la dottoressa coordina da quasi 20 anni, si deve infatti la recente scoperta di un nuovo meccanismo di induzione della malattia e di un possibile nuovo approccio terapeutico. Ecco, nelle risposte alla nostra intervista, la sua interessante testimonianza.

Qual è stata l’intuizione alla base del vostro studio?

«A differenza della ricerca tradizionale, incentrata sullo studio delle sole cellule cerebrali, come laboratorio di neuro immunologia abbiamo indagato il ruolo del sistema immunitario nell’induzione della malattia e abbiamo scoperto che nei pazienti affetti da Alzheimer i neutrofili (la classe di globuli bianchi maggiormente presente nel sangue) aderiscono alla parete dei vasi sanguigni del cervello per poi penetrare nel parenchima cerebrale. Qui, dove è presente un’infiammazione “sterile”, cioè non dipendente da infezioni, i neutrofili convertono l’“aggressività” normalmente usata per debellare gli agenti infettivi, in un ruolo patologico, provocando un importante danno tessutale. Grazie a una metodica d’avanguardia abbiamo scoperto che uno dei fattori che attraggono i neutrofili al cervello è un materiale proteico anomalo (amiloide) che si deposita nei vasi cerebrali. Ma stiamo cercando di individuarne altri».

Che vie terapeutiche aprono i risultati di questa ricerca? 

«Nei modelli sperimentali di Alzheimer abbiamo dimostrato che somministrando un farmaco nella fase precoce della malattia, possiamo bloccare la molecola posta sulla superficie dei neutrofili (integrina Lfa-1) che ne consente lo spostamento, quindi la migrazione al cervello, con un effetto terapeutico di contenimento del deficit cognitivo anche di lunga durata. Si tratta di un farmaco anti-integrina, già in commercio e utilizzato per altre patologie autoimmuni. E abbiamo ragione di credere che il trattamento individuato in laboratorio, che a differenza delle terapie attualmente in campo è in grado di interferire con il decorso della malattia, possa produrre sul paziente uomo/donna gli stessi risultati benefici. Il passaggio alla ricerca clinica, di cui l’Italia è notoriamente orfana, richiede, tuttavia, molte risorse. A tale fine stiamo coinvolgendo alcune grandi case farmaceutiche statunitensi, nel tentativo di dare una risposta celere ai sempre più numerosi pazienti di Alzheimer (solo l’Italia ne conta circa 1,2 milioni, in costante aumento, NdR)».

Esistono differenze di genere nell’evoluzione dell’Alzheimer?

«Non ci sono studi che provino un differente decorso della malattia nell’uomo e nella donna, né  una diversa risposta ai trattamenti. Dagli studi sui modelli di laboratorio e da evidenze cliniche su pazienti, sappiamo solo che nel genere femminile esiste una maggiore incidenza della patologia, concomitante con l’invecchiamento e la perdita di ormoni in menopausa».

di Francesca Saglimbeni

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